Milano Bicocca Village

5 marzo 2016, Sabato sera.
Mi pare di ricordare che qualche tempo fa per il cinema si parlasse di rischio di fallimento e che la sua frequentazione fosse diminuita al punto da fare ricordare con nostalgia code e spintoni per entrare.
Il pericolo è scampato con la multisala.
Sabato sera, al Bicocca Village di Milano c’era talmente tanta gente da fare ricordare con nostalgia la platea fredda e deserta dei cinema in centro città all’inizio degli anni 2000.
Tutti giovani. Puzza di pop corn. Bagni sporchi come quelli degli autogrill a Ferragosto. Pavimenti appiccicosi da travasi di Coca Cola a tradimento. Serpentoni parlanti e senza fine che entrano sui titoli di testa e fanno il trenino tra le file. Trailers violenti a volume a palla che ti fanno dimenticare il titolo che hai scelto.
Caldo uterino.
Poltrone talmente comode che se arrivi da una cena ti addormenti prima dell’inizio del film.
Promessa di non ritornarvi mai più durante l’weekend.
Ansia della coda per i biglietti con il conto alla rovescia dei posti sullo schermo che ti fa venire la paura che sia l’ultimo giorno di vita sulla Terra.
Dopo avere abbandonato la nave che colava a picco degli ultimi undici posti di Revenant, abbiamo scelto il rilassato bus delle duecento trentatré poltrone libere di Tiramisù e siamo entrati nel tunnel.
Marito addormentato sulla sinistra e nipote occhialuta sulla destra.
Inizio del film d’esordio di Fabio De Luigi, glorioso protagonista del capolavoro televisivo incompreso che è stato Love Bug’s.
Recensione:

“Fin dal principio, capisci che il faccione che appare in primo piano sullo schermo non ti farà ridere.
Realizzi subito, istintivamente, che questa volta no, Fabio De Luigi, non ti farà ridere.
La scena è lunga, inutile, difficile da capire.
E, soprattutto, parla subito del tiramisù, introducendo addirittura la sua ricetta.
Come dire, ti svelo subito tutto quello che avrei potuto farti intuire, restando nel mondo del simbolico.
Ti dico subito che il tiramisù a cui alludo è proprio il tiramisù.
Anche la faccia del cuoco che cucina non è simpatica e il film inizia male.
Vittoria Puccini è sì lieve e deliziosa come nelle anticipazioni, ma c’entra con Fabio De Luigi come Olivia di Braccio di Ferro con Rhett Butler di Via col Vento.
Due mondi, due corpi, due anime separate dal film.
Gli amici, i parenti annessi, tutti gli altri, ognuno per conto proprio con la propria bozza di personaggio a cui, negli appunti dello sceneggiatore, fanno riferimento.
Le location, italiane, sconosciute agli italiani in platea.
Ogni scena è una gag a parte che, però, non si chiude come se si cambiasse canale tra una e l’altra.
Persino Pippo Franco non sembra fare parte del cast, ma di un’altra opera che interferisce per un errore di frequenza.
E lui, Fabio, è un eroe o un coglione?
Per lui, devi provare comprensione o sperare nel suo fallimento?
E, dopo avere rinunciato a ridere (a parte nella esilarante scena del defibrillatore) cosa ti deve fare pensare questo film?
Che diventare cinici e bastardi non conviene?
Che se ritrovi la rotta perduta puoi ritornare a vivere ricco e felice in riva al lago come se niente fosse accaduto?
Che se ti redimi anche gli spermatozoi accelerano la loro corsa?
Non so cosa ti fa pensare, ma so che “provaci ancora, Fabio”.
La tua corsa in bici, nuovo Forrest Gump de noantri, era noiosa come un vecchio documentario del terzo canale di una volta e la scena finale con il figliolo sul vasino orrenda come un film di Massimo Boldi.
Da capo.
Cancella, rifai da capo e vediamo cosa viene fuori.
Intanto, ti aspettiamo a casa, lontani dalla multisala maledetta, in attesa del prossimo tentativo.
Un’altra chance te la diamo perché sei tu”.

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Educarsi

Il padre di una studentessa morta nell’incidente stradale che ha coinvolto in Spagna un gruppo di giovani in Erasmus, ieri, mi ha colpito.
Intervistato, ha dichiarato che non incolpa l’autista che guidava il bus uscito di strada per il suo colpo di sonno. Ha detto che non lo incolpa e che che occorre capire perché è successo quel che è successo e comprendere, al di sopra di lui, di chi è la responsabilità.
Che uomo.
Un uomo che in uno dei massimi momenti di stress emotivo, usa la ragione.
Che passa dall’io al noi.
Che guarda la situazione nel suo complesso e non cade prigioniero del suo stesso stato.
Che non ne viene travolto.

Come può riuscire a farlo?
Non è sicuramente una capacità che esplode da un momento all’altro, improvvisamente.
È una competenza, credo, che ha radici profonde, nel passato, che nasce come frutto dell’intera vita.
E’ una competenza che è stata educata.

Come?
E’ difficile sintetizzare il processo che porta alla maturità, che sviluppa la ragionevolezza, ma ci provo.

Uno: l’esercizio della riflessione. Delle cose che accadono occorre parlare, a sé stessi e con gli altri.
Cosa è successo? Perché? Cosa ne penso? Cosa provo? Cosa pensi tu?
Due: l’esercizio dell’empatia.
Cosa prova l’altro? Cosa vedo nell’altro? Cosa penso stia pensando? Al suo posto cosa farei?
Tre: l’esercizio del pensare in termini universali.
Sapere generalizzare, sapere guardare il mondo. Parto dalla mia esperienza, ma la allargo, la metto in relazione con l’universo. E scopro che nell’universo, la mia esperienza esiste anche per altri, che il mio dolore, la mia gioia, sono eventi che colgono l’essere umano in generale, non solo me.
Raccolgo i dati che arrivano da fuori, li ascolto, li osservo. Guardo l’insieme, mi vedo dall’alto.
Quattro: l’esercizio dell’ascolto, appunto.
Sto zitto, mi metto in attenzione. Mi interesso dell’altro e di ciò che è intorno a me. Lo registro, lo faccio mio. Mi importa cosa mi si sta dicendo, non solo cosa penso io.
Cinque: l’esercizio dell’esame di coscienza (antico esercizio).
Cosa ho fatto? Cosa posso fare? Cosa potevo fare? Cosa è successo dopo le cose che ho fatto? Che responsabilità ho?
Potrei continuare.
Si tratta di azioni che, ad un bambino, ad un ragazzo, devono essere proposte, non arrivano da sole. Sono azioni da condividere, da proporre, da mostrare con l’esempio.
Allora, crescere può significare affrontare una per una le tante cose difficili che si parano davanti e non scansarle.
Può significare mettersi alla prova e superarla, con forza fisica e mentale, da esercitare, appunto.

Il papà che ho ascoltato in tivù è passato inosservato rispetto alle tante reazioni eclatanti che che vengono mostrate, ma invito ad andare a riascoltarlo.
Rincuora, consola, fa sperare nella possibilità di evolvere e di non soccombere anche di fronte alle tragedie, ma, in generale, in mezzo alle mille facce di una umanità perduta. In fondo, credere nella forza dell’educazione dà la speranza non solo di resistere alle difficoltà, ma anche di scoprire o ritrovare la rotta nella mappa della vita.
In un viaggio che non si può programmare, ma al quale possiamo dare un significato scelto da noi.

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Dall’io al noi nel micro e nel macro

Giovedì 10, venerdì 11 e sabato 12 marzo scorsi ho partecipato al Convegno organizzato da Animazione Sociale a Torino, dove ci siamo incontrati in ottocento intorno al tema “La Città del noi, per una politicità dei desideri nel lavoro sociale”.
Fermarsi a riflettere, ad ascoltare, ed incontrare altri intorno ad argomenti cari fa sentire nel mondo e fa sentire il mondo. Incapsulati ogni giorno nei nostri gironi, rischiamo di dimenticare i perché che sono alla base delle nostre scelte e, un po’, anche noi stessi, alla base di noi.
Mi ero iscritta senza scegliere il tema. Sarei andata comunque. Mi fido di Animazione Sociale, mi piace Torino, avevo molta voglia di un piccolo viaggio.
Il tema l’ho scoperto pian piano, ora dopo ora, e mi sono appassionata.
Dei due lavori in sottogruppo ho molto apprezzato il primo, in cui il metodo autobiografico è apparso come pratica tra le pratiche, dalle quali partire per il confronto.
Come passare “dall’io al noi” nel metodo autobiografico?
Sono emersi i seguenti ingredienti: l’ascolto paziente, l’approccio empatico, l’essere insieme in una occasione scelta, organizzata, intenzionale, insomma.
Scrivere una storia collettiva attraverso la storia di ciascuno.
A casa, proseguo la riflessione e mi viene in mente che questo “dall’io al noi” può essere applicato anche ad altre due categorie, oltre che alla città, ovviamente partendo proprio dal significato metaforico che il riferimento suggerisce.
Primo, lo posso applicare ad ogni microsistema, per esempio alla Casa di Riposo dove lavoro.
In quella Casa, come in ogni comunità, è molto, molto forte l’aspetto delle individualità. Ci vivono molte persone, ciascuna delle quali ha bisogni, motivazioni, pensieri, rappresentazioni, azioni, una storia.
E ciascuna persona è forte nel provare e nell’essere tutto ciò.
Se la mission di una comunità , però, è quella di vivere insieme, occorre per forza trovare la strada per scrivere una storia di tutti, una storia collettiva.
Per forza, se non si vuole creare un sistema malato, ovvero pieno di individualità che, implicitamente o esplicitamente, si scontrano ed incontrano in ogni momento, ma lo fanno solo a nome dell’io di ciascuno.
Stranamente, questo lavoro di scrittura, di definizione di una storia comune, a partire da quella di ciascuno, si coltiva molto poco.
Si scrivono progetti, regolamenti, carte di servizio, ma non proprio la storia, non proprio una fotografia di tutti. O, lo si fa senza consapevolezza. Senza intenzionalità.
Ecco che, allora, ci può venire incontro la narrazione autobiografica, che, condivisa, è proprio quella scrittura. La narrazione può avvenire attraverso la scrittura, ma anche la fotografia, l’arte visiva, la drammatizzazione, i viaggi e i loro diari, gli eventi e il loro racconto.
Ma, tutto, in un progetto, appunto, con intenzione.

Ecco, questo è il micro.
E, poi, c’é il macro.
Perché non applicare la teoria del “dall’io al noi” anche ad un macrosistema che più macro di così non si può e che si chiama mondo?
“Ho visto un posto che mi piace, si chiama mondo” canta Cesare Cremonini, la citazione non è colta, ma è appassionata.
E’ nel-mondo che viviamo e, mai come oggi, anziché alzare muri e difendersi con barriere, occorrerebbe pensarsi diversi da prima, ovvero insieme.
Lo stato sovrano non esiste più e, come dice Bauman, la società di oggi è liquida. Conviviamo già tra stranieri, e, forse, per andare avanti, oggi occorre uscire da questa categoria.
Abitiamo il mondo, lo abitiamo già, non siamo più divisi. Perché, allora, non costruire, a poco a poco, questa nuova storia?
La paura ci obbliga a difenderci e, spesso, è dettata dalla non conoscenza. Lo straniero è strano, prima di tutto. Allora, lavoriamo alla familiarità, che è fatta di incontri, chiacchiere, foto, eventi, scritture condivise. Affinché fra tanti anni si possa vivere in pace.
O meglio, affinché, fra tanti anni, si possa vivere ancora.

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