Senza bar

Di domenica, spesso, il mio bisogno è quello di uscire, ma non solo di casa, anche di città, come se il luogo in cui abito fosse un recinto con uno sportello da aprire per andarsene fuori. Non mi serve andare molto lontano, basta uscire dal recinto e incamminarsi verso spazi diversi. In cui non c’è il lavoro, in cui non ci sono orologi, né impegni. È il mio concetto di tempo libero.

Questa volta, siamo andati a Limonta, un piccolo paese sul lago di Como, che una volta aveva identità di Comune autonomo e ora è frazione di un paese che di reale ha solo il nome: Oliveto Lario. Oliveto Lario non esiste, esistono solo le sue tre frazioni: Vassena, Limonta e Onno, riunite, perché diventate troppo piccole, nel 1927. I loro 1242 abitanti appartengono a due diocesi diverse: quella di Milano (Onno e Limonta) e quella di Como (Vassena). Onno e Limonta hanno il Carnevale distinto da quello di Vassena, le prime due seguono il rito ambrosiano, la terza quello romano.

Un bel daffare, anche se, una volta raggiunte, tutto questo movimento non si percepisce per niente. Questi luoghi, che sembrano rimasti quelli di un tempo, ora sono vuoti e silenziosi. Botteghe, scuole e municipi hanno lasciato il posto a tante case, molte chiuse perché di villeggiatura, che guardano il lago godendosi il sole che, nel primo pomeriggio, poi, se ne va. A Vassena, Limonta e Onno sono rimaste otto chiese, due cappelle, una scuola dell’infanzia e una scuola primaria, ma di domenica è tutto chiuso.

A Limonta, una volta parcheggiata la macchina, abbiamo cercato un bar, che non c’era. Ci siamo seduti su di una panchina e abbiamo ascoltato i suoni intorno che sembravano pennellate su tela. Il cane. L’acqua. Il motore di un tagliaerba. Il canto degli uccelli. Che non ci fossero bar ce lo ha detto un signore che stava aggiustando il motore di un attrezzo agricolo dentro il giardinetto della sua abitazione. È rimasto male a doverci dire di no, tanto che ci ha invitati a bere un caffè a casa sua. Noi non abbiamo osato accettare, forse non era quello che cercavamo, ma quell’invito mi è rimasto in mente come un piccolo racconto breve. Se tutti i giorni vivi in rete, di questi momenti hai molto bisogno. Quando torni a casa, restano nella mente come se fossero presenti e tornano per ricordarti che quello che accade non è mai solo ciò che accade, è anche ciò che non è lì, ma esiste lo stesso, solo che non lo vedi.

A me, questo, a volte, serve a difendermi dal presente, quando è un cattivo presente. Io sono lì, ma, nello stesso momento, sono anche altrove. Fuori dal recinto. Non so come si chiama questa cosa, ma so che serve, soprattutto quando sembra che non ci siano speranze, né luoghi o momenti diversi da ciò che si vive. Invece, i luoghi diversi ci sono, così come c’è sempre la speranza di essere, noi, un luogo diverso, se il luogo che siamo non ci corrisponde più. E se non so più cosa voglio perché tutto si è riempito di ciò che non voglio più, allora, posso immaginare di svuotarmi e di essere qualcos’altro. Posso immaginare di essere un luogo senza parole, senza progetti, senza obiettivi, senza tempo.

Posso immaginare di essere un luogo senza nemmeno un bar.

 

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Ciao amico nostro per sempre

Eso que tú me das

Eso que tú me das
es mucho más de lo que pido
todo lo que me das
es lo que ahora necesito

Eso que tú me das
no creo lo tenga merecido
por todo lo que das
te estaré siempre agradecido

Así que gracias por estar
por tu amistad y tu compañía
eres lo, lo mejor que me ha dado la vida

Por todo lo que recibí
estar aquí vale la pena
gracias a ti seguí
remando contra la marea

Con todo lo que recibí
ahora sé que no estoy solo
ahora te tengo a ti
amigo mío, mi tesoro

Así que gracias por estar
por tu amistad y tu compañía
eres lo, lo mejor que me ha dado la vida

Todo te lo voy a dar
por tu calidad y tu alegría
me ayudaste a remontar
a superarme día a día

Todo te lo voy a dar
fuiste mi mejor medicina
todo te lo daré
sea lo que sea lo que pidas

Y eso que tú me das
es mucho más
es mucho más
de lo que nunca te he pedido

Todo lo que me das
es mucho más
es mucho más
de lo que nunca he merecido

 

Eso que tú me das
Eso que tú me das

Quello che tu mi dai

Quello che tu mi dai
è decisamente più di quello che chiedo
tutto quel che mi dai
è quello di cui adesso ho bisogno

Quello che tu mi dai
Credo di non meritarlo
per tutto ciò che mi dai
ti sarò sempre grato.

Quindi grazie per esserci
per la tua amicizia e per la tua compagnia
sei la cosa più bella che la vita mi abbia dato

Per tutto quello che ho ricevuto
Vale la pena essere qui
grazie a te ho continuato
remando contro corrente

Con tutto quello che ho ricevuto
adesso so di non essere solo
adesso ho te
amico mio, il mio tesoro

Quindi grazie per esserci
per la tua amicizia e per la tua compagnia
Sei la cosa più bella che la vita mi abbia dato

Ti darò tutto
con il tuo valore e la tua gioia
mi hai aiutato a risalire
a fare del mio meglio giorno dopo giorno.

 

Ti darò tutto
sei stato la mia migliore medicina
ti darò tutto
qualunque cosa tu chieda

E ciò che mi dai
è molto più
è molto più
di quanto ti abbia mai chiesto

Tutto quello che mi dai
è molto più
è molto più
di quanto abbia mai meritato

Quello che mi dai
Quello che mi dai

 

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Per esempio

Sì, era proprio dentro di me che dovevo cercare.
Lo stallo del lockdown e la tensione per la graduale, ma difficile ripresa mi avevano stordito.
Tanto da non avere più forze per fare niente.
Ma non è strano, è naturale.
Quello che ci è accaduto non ha precedenti e abbiamo bisogno di rimetterci insieme.
La possibilità, che ci siamo augurati, di ricominciare in maniera nuova rende tutto ancora più complesso.
Questo nuovo non sappiamo cos’è, non riusciamo a prefigurarlo, non lo conosciamo e non possiamo fare altro che scoprirlo passo dopo passo.
La difficoltà sta nel fatto che questa modalità nuova non ha a che vedere con il fare, ma con l’essere.
Per questo è difficile e per questo la chiave per ri-uscire è dentro e non fuori.
Forse, la strada non passa dal cercare la strada, ma dal camminare stesso.
Non possiamo fare altro che camminare, un chilometro alla volta, come ha detto Chiara Genova che è partita per un lungo cammino che attraverserà l’Italia.
Millequattrocento chilometri e lei, a chi le ha chiesto come farà, ha risposto: “Uno alla volta”.
Sembra semplice, ma è la soluzione.
Il suo arrivo è previsto per il 13 agosto, a Monte Sant’Angelo, in Puglia, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno.
Chiara ha detto: ““Abbiamo due emisferi, uno razionale e improntato alla logica e uno che invece viaggia sull’emotività. Ecco, dopo la quarantena ritengo che sia importante riattivare la parte che ha un impatto simbolico sulla nostra vita e che ci dice che possiamo realizzare quello che la nostra anima ci chiede”.
Questo è il suo programma, camminare e cercare ciò che la sua anima le chiede.
Chiara, nel passato, è stata nostra collega nei progetti educativi che seguivamo a Lecco, poi le strade si sono divise.
Quando ho saputo del suo viaggio l’ho invidiata pensando “Lei può”, ma sbagliavo.
“Lei vuole” e “Lei fa”.
Ed è un esempio.
La pandemia e i lutti che ho vissuto negli ultimi tre anni mi hanno fatto provare e sentire di persona, prima ancora che pensare, la finitudine, il fatto che le possibilità non sono infinite, come nell’età giovane siamo portati a pensare.
E, dopo una lunga malinconia, mi sta tornando quella che potrei chiamare gioia di vivere, che non è la felicità, ma il sentimento positivo relativo alla vita, anche se è previsto che finisca.
Un chilometro alla volta, un giorno alla volta, è vita, fino a che finisce.
Possiamo progettare azioni che ci fanno bene anche se sono faticose. Fino a che c’è vita.
Ma dobbiamo farlo a nostra misura, a misura della nostra anima.
Non so quali sono le mie, non lo so proprio. Mi capita di riuscire di più a mettere a fuoco quali NON SONO le mie e questo, per ora, mi basta.

Cammino, mi riposo, cammino, mi riposo, cammino.

Come lei lungo il sentiero.
Buon viaggio Chiara, e grazie.

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Sono stanca

Sono stanca, stanca, stanca.
Il lavoro mi tiene occupata e così le chiamate alle persone care, così il preparare i pasti e le cene e così il riposo ristoratore della notte piena di strani sogni.
Ma sono stanca, come sono stanchi tutti.
È una stanchezza data dal continuo dolore per ciò che accade, per le morti silenziose e tragiche, per le fatalità che hanno governato e stanno governando l’accadere.
Se ti va bene la scampi, altrimenti ciao.
Qualche provvedimento ha migliorato le cose, ma è nelle mani della fortuna e per chi ci crede del buon Dio la sorte che ci tocca in questo momento.
Sono stanca delle parole che arrivano dalla televisione, sono stanca dei litigi, delle ipotesi, degli approfondimenti, sono stanca delle scoperte scientifiche che ogni giorno aprono nuovi spiragli o abbattono piccole rassicurazioni che a fatica avevi tentato di incollare come cerottini su ferite sanguinanti.
Sono stanca di immaginarmi la fase due, mi sento tanto nella fase uno, forse persino nella fase zero, come faccio ad immaginarmi la due?
Dubito che ce ne sia una, potrebbero essere mille ancora che ci attendono, fase tre, quattro, cinque, sei e via verso non si sa.
Ho perso l’idea che sarà il vaccino a tirarci fuori, comincio a pensare che è altro che mi può aiutare ora.
Non so ancora cosa sia, ma è altro.
È come se dovesse nascere qualcosa dentro che mi e ci porti fuori dal fosso in cui siamo.
Un fosso dentro il quale non c’è riparo, ma freddo.
Dalla quarantena bisogna uscire per sopravvivere economicamente, ma non sono i soldi che tengono vivi se si è morti.
Quando parlo con le persone hanno tutte voglia di natura. Di passeggiate nei boschi, di vedere il mare, di camminare sull’erba, di sentire il sole sulla pelle.
Tutti abbiamo bisogno di tornare a toccare il mondo e questo continuo richiamare mascherine e distanziamento sociale mi abbatte l’animo.
La mia testa capisce, il mio corpo no.
Questa stanchezza mi fa reagire con la rabbia, so che è una difesa, ma come tutte le difese scatta perché necessaria. Mi arrabbio per i tamponi che non ci sono, per la disorganizzazione generale, per la mancata responsabilità, per la burocrazia che non comprende gli uomini, per la rigidità del sistema che provoca ovunque, tutto intorno a me, disfunzionalità ed ingiustizie.
Poi, dopo la rabbia, arriva il pianto, che scioglie la tensione, ma che mi abbatte nella tristezza.
Rabbia, tristezza, pianto.
Diciamolo, diciamocelo.
Non è andato tutto bene.
Dopo essercelo detto, forse, staremo un po’ meglio, ma non perché non c’è più il problema, è perché possiamo condividerlo, il più possibile.

 

 

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Finirà

Nei primi giorni di questa incredibile avventura mi aveva colpito piacevolmente il motto lanciato da qualcuno e poi diventato virale che diceva che tutto sarebbe andato bene.
Dopo lo shock delle prime ventiquattro ore, quella frase era un messaggio incoraggiante che apriva la possibilità di una soluzione quasi magica.
Oggi, dopo un mese, quella frase suona stonata, non la diciamo più.
Non è andato tutto bene, non sta andando tutto bene.
Oggi sappiamo che questa è una tragedia e che non finirà a breve. Sappiamo che i tempi saranno lunghi e che ne usciremo, chi ne uscirà, molto provati e feriti, con un forte bisogno di cura, dopo i corpi, delle nostre anime.
Ma, pur non sapendo quando, certamente, finirà.
Finirà, di sicuro.
E, in questa sostenibile speranza, cercando di gettare il pensiero in avanti, mi viene alla mente una domanda che può sembrare in questo momento inutile e anacronisticamente scandalosa, ma la esprimo ugualmente perché la sento vera, che spinge.
Perché quando qualcuno ha lanciato l’allarme rispetto all’estinzione della specie umana per l’incapacità di sopravvivere in un pianeta destinato a non poterci ospitare più, nel giro al massimo di un secolo, non ci siamo terrorizzati tutti?
Perché tutta la Terra a questo allarme non si è spaventata gettandosi a trovare soluzioni immediate per scongiurare quel pericolo?
Perché di fronte all’ipotesi di una fine certa e ineluttabile, moltissimi di noi, la maggior parte di noi, ha fatto finta di non sentire?
Forse perché un secolo è un lasso di tempo che non coinvolge l’arco di vita di chi oggi è già nato e quindi non ci riguarda? Forse perché è un fenomeno che non riusciamo ad immaginare e, quindi, non ascoltiamo chi, invece, lo studia a livello scientifico e ne ha le prove?
Forse perché fino a quando non lo vediamo non ci crediamo?
È una cosa che deve accadere in diretta come sta accadendo ora ciò che sta accadendo, per crederci, per averne paura?
Anche questo virus finché ci arrivava tradotto nelle immagini dei notiziari da luoghi esotici e sconosciuti ci sembrava “lontano un secolo”.
Anche questo virus, nei primi giorni, è stato confinato in un caso e in un paese che non erano i nostri, in una situazione che non ci riguardava.
In questi giorni, gli uomini della scienza sono diventati gli uomini che ci possono salvare.
Li ascoltiamo con trepidazione e speriamo che il loro lavoro, che le loro menti possano trovare una soluzione.
In questi giorni, i medici e tutto il personale sanitario sono gli angeli che ci curano, mentre i ricercatori studiano medicine e vaccini e da tutte le parti arrivano sostegni economici per questa battaglia.
In tempi di pace, quando c’era spazio e tempo per le cazzate della vita con la pancia piena e l’aspirina in tasca, abbiamo tagliato i fondi agli uni e agli altri. E la scienza ci siamo permessi di snobbarla.
Ecco, una cosa sulla quale oggi, e non domani, dobbiamo riflettere è proprio questa. È necessario rimescolare l’ordine delle priorità e mettere in cima la salute e la cura del corpo, dell’anima degli esseri umani e del Pianeta che li ospita.
Se è vero che la scienza in questo momento può fare molto per tutti, prepariamoci ad ascoltarla e ad investire tutte le nostre risorse nell’operazione che, dopo questa emergenza, deve diventare prioritaria e irrinunciabile che è la salvezza della Terra.
Perché questa prova non debba diventare la prova generale di una Fine che, se aspettiamo l’ultimo momento, sarà, al contrario di questa, matematicamente certa.
Prendiamoci la responsabilità di permettere alle generazioni che verranno di vivere ancora, assumendoci il dovere di cambiare la nostra vita di adesso, come stiamo dimostrando di sapere fare, rinunciando a quelle libertà che ci hanno portato al rischio della fine di questa straordinaria avventura umana.
Al termine di questo incubo, vediamo di uscirne con il bene prezioso di avere imparato che ciò che fa ciascuno di noi, moltiplicato per tutti, può salvarci e può salvarci solo se lo facciamo insieme. Tutti.

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Sogni, memoria e coronavirus

Sono giorni che penso di scrivere.
In questo tempo sospeso, nuovo e di paura la scrittura è a mia disposizione, ma non sono riuscita a farlo subito.
Non è facile fermarsi, frenare, cambiare ritmo. Se sei una persona che si muove velocemente e fa molte cose continui ad essere così anche da reclusa.
Ho riempito le giornate di frenetiche faccende domestiche, di lunghe telefonate, di parole, di messaggi, di notizie, di smart working, di ricerca di nuove attività e, alla sera, mi sono ritrovata stanca più di qualsiasi altro giorno di prima.
È difficile fermarsi, frenare, cambiare ritmo.
Succede anche in vacanza, figuriamoci ora, in cui la stretta d’ansia s’affaccia in ogni istante.
In questa ricerca obbligata di adattamento c’è un momento, però, che è rimasto uguale a prima e in cui sto bene e questo momento è la notte.
Mi sdraio, abbraccio lenzuola, coperte e cuscino come una volta facevo con gli esseri umani e aderisco attentamente a tutto fino a che il corpo si distende.
E quando finalmente mi addormento, sogno.
Spesso sono sogni molto belli, sogni nel mondo, sogni con le persone, sogni liberi, talmente positivi che stamattina ho pensato che bisogna sognare tanto anche ad occhi aperti, anche di giorno.
Bisogna coltivare la propria immaginazione positiva, bisogna coltivare pensieri buoni.
Voglio sognare il momento in cui andrò a fare di nuovo colazione nella mia pasticceria preferita, in cui andrò dal parrucchiere, in cui pranzerò al ristorante con le amiche, in cui passeggerò nella natura incontrando gente, in cui farò vacanze al mare, in cui viaggerò con leggerezza e, naturalmente, in cui abbraccerò, bacerò, accarezzerò.
Per fare questo è importante darsi del tempo, fermo, di incanto.
Si può leggere, si può scrivere, si può anche guardare nel vuoto, ma occorre fermarsi.
Aprire un varco, uno spazio.
Può essere un foglio, può essere guardare dalla finestra, può essere sdraiarsi ad occhi chiusi, ma bisogna svuotare, liberare.
Poi, In questo esercizio, può capitare una cosa strana: può succedere di immaginare e di desiderare anche cose che, nella normalità, non ci piacciono.
Ad un certo punto mi sono ritrovata tra i pensieri anche: “sogno di ritrovarmi in coda in auto la mattina”, “sogno di lavorare tanto come prima”, “sogno di rivedere tutti, compresi quelli che mi stanno antipatici”, come dire “pur di tornare a prima, va bene tutto”.
No, non deve essere così, quando ne usciremo dovremo essere cambiati, dovrà cambiare in meglio la nostra vita, non dovremo tornare come prima.
Questa è una occasione che non si può buttare, è troppo faticosa per non servire a nulla.
Io non voglio che tutto torni come prima, voglio tornare alle possibilità di prima, ma diversa, nuova, migliore.
E per fare questo, oltre ai sogni, occorre un’altra operazione mentale che è preziosa e indispensabile e questa operazione è la memoria.
Ricordare ciò che ora sta accadendo, dopo.
Non dimenticare le cose che stiamo dicendo, le cose che stiamo desiderando, le cose che stiamo facendo e che non abbiamo mai fatto.
Non dimenticarci di come siamo stati, di ciò che abbiamo intuito, capito, sentito.
Per aiutare a fare ciò si può scrivere, tenere un diario, fare fotografie, disegni, video. Bisogna tenere traccia.
Dopo, ci servirà per mantenere vivo tutto ciò che ora siamo.
Dopo, in un tempo in cui la vita che riprende ci obbligherà a ritornare in un flusso normale, ci servirà a ricordare.
Perché tutto ciò che ci sta succedendo non sia inutile.
Perché questo è un seme e dobbiamo immaginarci il fiore.

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Joker

No, non è un film sul sistema che respinge il diverso e che muore per sua stessa mano.
Non è un film sulla prigionia della mente e sulla liberazione.
Non è un film sui bambini tristi o sugli adulti infelici, né un film sull’ipocrisia del benpensante e sul desiderio di riscatto di chi è più povero.
Secondo me è un film sulla follia.
Sulla follia e su come la follia possa sfiorare la ragione più di quanto ci piaccia pensare.
Arthur è matto, ma dice cose vere.
Arthur fa ciò che una persona normale farebbe, ma non fa, senza nemmeno immaginare di volerlo fare.
Quando lo picchiano, nei due pestaggi mai innocenti, ciascuno di noi vorrebbe difenderlo ferocemente e il fatto che ferocemente reagisca lui è un sollievo perché così, il matto è lui e non noi.
La folla può indossare maschere, lui è la maschera.
Il passaggio tra la depressione buona e la scelta di reagire da cattivo, però, è tecnicamente troppo veloce e la pistola data per imbroglio dal finto amico si salva solo se diventa il simbolo della realtà che può essere un giocattolo o un arnese di morte a seconda di come ce la si racconta.
A seconda se decidiamo che sia tragedia o che sia commedia, come dice lui.
Non mi convince attribuire a quest’opera significati sociologici o pedagogici, credo che questo film sia solo la descrizione della pazzia dal punto di vista del pazzo, ma, da sola, questa cosa vale l’Oscar.
Joaquin Phoenix è un attore che, come De Niro (o Nicholson) diventa ciò che interpreta e, in questo modo, porta la mente dello spettatore nel passaggio sotterraneo da realtà a finzione, che è la vera magia del cinema.
In questo senso sì che è un capolavoro.
Non mi convince il finale, non l’ho capito, ma se non mi oppongo e mi lascio trascinare, rinunciando a risolvere l’angoscia della visione, è un finale che mi trasporta, definitivamente, nella testa del matto.
E a quel punto comprenderne il significato non serve più.
E a quel punto è solo Joker.

 

 

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E tu digli che ci vai lo stesso

Sono in spiaggia, finalmente in spiaggia.
Non in ufficio, in un colloquio, in una scuola, a cantare con gli anziani, a far ballare le maestre; sono in spiaggia, finalmente in spiaggia.
La mia testa, libera dal lavoro, alterna pensieri spazzatura, che mi partono incontrollati ogni volta che freno e mi fermo, a idee nuove.
Quando le vacanze durano un po’ le idee nuove fioriscono e generano giardini. Se i giorni sono cinque, come questa volta, percepisco solo piccoli lampi di luce che schiariscono il buio del tunnel quotidiano, e li conservo, preziosi.
Come piccoli semi che porto a casa per coltivarli in serra.
Esco dall’acqua, dalla magnifica acqua di mare maremmano, limpida e fresca. Esco dall’acqua e mi imbatto in una bambina che grida ad un coetaneo: “Giovanni, per favore, posso venire sul materassino con te?”.
Io sono esattamente in mezzo, tra i due, ma anche se fossi stata a cento metri avrei colto la frase perché la mia curiosità per la comunicazione umana è diventata mostruosa.
Giovanni, il coetaneo, risponde di no. Un no secco, spietato, sordo. Senza spiegazioni, ne incertezze.
È un no che arriva a me, in linea d’aria, prima ancora che alla bambina, è un no che mi colpisce, a tal punto da girarmi e farmi intervenire.
Le dico: “E tu digli che ci vai lo stesso”.
Capisco subito che ciò che ho fatto potrebbe essere un disastro pedagogico o una preziosa sollecitazione biografica generativa, ma la frittata è fatta. È vita, non teoria.
La bambina mi guarda, spiazzata.
Io continuo la salita verso la sabbia, spiazzata a mia volta da me stessa medesima e sto attentissima a non voltarmi più.
Con la coda dell’occhio, però, controllo ciò che accade dietro di me, come in un giallo.
La bambina, dopo qualche attimo, a passi rallentati dall’acqua e dallo spaesamento, raggiunge l’amico.
Li perdo, non voglio voltarmi, non so cosa sta accadendo. Si spegne la luce.
Raggiungo l’asciugamano, mi sdraio e, a quel punto, guardo e, come nel finale del film che si riaccende, vedo il fotogramma che conclude la trama.
La bambina è sola, sdraiata sul materassino, e lentamente, pagaiando con le braccia, va verso il largo.
Non c’è la musica e, così, non so se il the end è felice o disperato, ma propendo per la prima ipotesi.
Molto probabilmente ci sarebbe arrivata da sola, un po’ mi rincuoro e non mi importa avere avuto anche un minimo di merito. Sono contenta, forse non ho fatto un guaio.
Ciò che avverrà, questo però lo so, è che il mio intervento, almeno per me, è destinato a restare.
Come una alternativa, come un’altra possibilità, come una terza via che ci si può parare davanti se scartiamo il pallone mentre ce lo stanno portando via.
“Magari non con te, ma con il materassino sì, anche perché era quello che desideravo”.
È una consapevolezza che si raggiunge a cinquant’anni, ma io auguro a tutte le femmine di comprenderlo molto, molto tempo prima.
Per evitare che i sensi di colpa e le rinunce ti impediscano di salpare e di navigare.
Per tracciare la tua rotta, per cercare il tuo nuovo mondo.
Ma, soprattutto, per non restare a riva mentre il tuo principe azzurro sparisce all’orizzonte.

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Sanremo 2019

Alla fine, hanno vinto i giovani e chi rappresenta l’Italia più popolare che c’è. Forse, all’una di notte, è rimasto sveglio a votare solo chi ce la fa e chi ci crede, anche se i critici e la Sala Stampa hanno premiato l’eccellenza.

Lo spettacolo, quest’anno, si è rivelato molto debole, con comici che fanno un lavoro che non è il loro, anche bene, ma che non è il loro.

La direzione artistica di Baglioni è da premiare, capace di scegliere con professionalità e coraggio, bravo.

Berté e Pravo (con la P) grandi personaggi, i gruppi fantastici, Renga e Nek strafighi, i giovani eccezionali, qualche brutta canzone, ma, in complesso, bella musica, cantata e suonata bene.

Cinque sere mi sembrano sempre troppe, pur appassionata e resistente fino all’ultimo quale sono. Soprattutto la serata dei duetti, anche se curata, rompe un po’, anche dal punto di vista della memoria uditiva che, mentre si sta affezionando ai brani, deve scontrarsi con variazioni difficili da godere.

In complesso, il Festival è un evento positivo. Dà l’opportunità di mostrare lavori e capolavori di un mondo che solitamente si muove per sezioni, per categorie e che, una volta all’anno, si deve confrontare.

È musica leggera, ovvio, ma così leggera, che ci fa sognare.

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Schwarzenegger’s time

Navigator.
Si chiameranno navigator gli operatori che, dal mese di aprile 2019, aiuteranno i disoccupati o inoccupati con reddito annuale inferiore a 9.360 euro, residenti in Italia da almeno 10 anni e in possesso di diploma se in età dai 18 ai 25 anni.
I navigator dovranno, nel tempo dei 18 mesi previsti dal reddito di cittadinanza, fare a questi poveri assoluti TRE proposte di lavoro, dopo le quali, se non accettate, il reddito terminerà A VITA.
I diciotto mesi non sono prorogabili, ma non si capisce se, ricevendo una sola proposta e magari non accettandola in attesa di una migliore, tutto andrà comunque a finire perché il tempo scade oppure no.
Ogni navigator seguirà dalle 100 alle 150 persone e, in questo senso, dovrà, in diciotto mesi, individuare almeno 150 proposte di lavoro.
Se si moltiplica questo numero per il numero di persone che chiederà questo aiuto (cifra indicata in cinque milioni) dovranno spuntare fuori dal cappello circa 5 milioni di posti di lavoro.
Come si usa dire oggi: “DI COSA STIAMO PARLANDO!?!”
Le ipotesi sono due: la prima è la moltiplicazione dei pani e dei pesci e per i miracoli stavamo intercedendo anche prima del governo attuale.
La seconda è la possibilità di un intervento fantastico e cinematografico alla Arnold Schwarzenegger.
La finzione serve a questo, ma il problema è che, in questo nostro tempo, ciò che è fiction, se dichiarato e pubblicato diventa immediatamente real.
Se dico che faccio una cosa, posso farla. Se la dichiaro è già fatta.
La cosa seria è che su questi presupposti milioni di italiani hanno espresso il proprio voto, con il vantaggio che, a differenza dei televoti, era anche gratis.
Se le cose andranno come è ragionevole supporre, temo che lo share sarà bassissimo.

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