In guerra per amore

Bravo Pif, molto bravo.
Un film delicato per parlare di un tema forte, un film dolce per dire cose amare.
Leggero, ma importante. Divertente, ma serio.
Un bellissimo film.
Riuscire a raccontare la Storia inventando belle storie da narrare è roba da artisti e la sua seconda opera, possiamo dirlo, incornicia definitivamente Pierfrancesco Diliberto nella categoria.
L’amore per la Patria del Tenente Chiamparino e l’amore per Flora del protagonista sono Amori per i quali vale la pena vivere, ma anche morire. Per i quali si può sfidare la Sorte, per i quali si può tentare l’impossibile.
E, d’altro canto, subire prevaricazioni e soprusi può accadere ad un popolo come ad una donna e Pif parte da lontano per raccontare quanto si possa scegliere una via o l’altra.
Il progetto di ridare libertà alla Sicilia e all’Italia, da parte degli Americani, rischia di fare passare dalla padella del Duce direttamente alla brace della Mafia, complice la volontà di “risparmiare” fatica e vite umane, mentre il soldato inutile Arturo Giammaresi decide di percorrere un’altra strada.
In “In guerra per amore” si respira lo stesso clima vissuto in La vita è bella o in Forrest Gump e, allo stesso modo, si sente un cinema soave che parla al cuore, capace di denunciare con poesia ciò che è ingiusto, ma anche di descrivere con ironia ciò che appartiene irrinunciabilmente all’avventura umana.
Pif, da buon Pinocchio, è accompagnato, sulla sua strada, da un Gatto e una Volpe straordinari, da una bella Fatina capace di proteggere dalle bombe, da un credibile Mangiafuoco cattivo burattinaio e si salva la vita grazie ad un Geppetto di cuore che non esita a buttarsi nelle fauci della Balena per aiutarlo.

Questo film è una favola, proprio perché ci racconta cosa succede di brutto nella nostra realtà senza farci del male.

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Le cose belle

Dobbiamo circondarci di cose belle, cercarle, desiderarle, volerle.
Dobbiamo abituare il pensiero a pensarle, l’occhio a vederle, il cuore a sentirle.
Non è così scontato riconoscerle, distinguerle, ma, soprattutto, sceglierle.
E’, invece, molto facile abituarsi al brutto, al mediocre, al tanto è lo stesso, fin da piccoli.
I bambini sono attratti dalle cose belle, ma, da soli, non ci arrivano. Sono gli adulti a poterle individuare per loro e a guidarli verso il positivo.
Ma, per farlo, occorre una montagna di fatica. Occorre fare, modificare, muovere, scartare, rinunciare, insistere, decidere. Occorre, in sostanza, assumersene la responsabilità, sentirlo come un dovere.
L’alternativa, il rimanere a guardare passivamente, l’accettare senza cambiare, è dietro l’angolo, sicuramente più comoda.
Cosa ce lo fa fare, allora, di fare questo sforzo, se non il non poterne fare a meno?
Deve diventare un automatismo, deve innescarsi un dispositivo che ci fa dire: “Si fa così, voglio così, faccio così”.
E’, come altre e innumerevoli cose, una questione educativa, fatta di azioni, prima condotte e guidate, poi autonome, interiorizzate, in coscienza.
Il risultato, però, è notevole.
Essere circondati da cose belle, fare cose belle, ricevere cose belle è portentoso.
Fa stare bene, cura, rivitalizza, rinnova, fa rinascere. Ogni giorno, ogni volta.
Pranzi, paesaggi, film, concerti, libri, tovaglie, quadri, canzoni, vestiti, parole, poesie, immagini, gesti, pensieri.
Tutte le risorse che abbiamo devono andare in quella direzione. Poche o tante che siano.
Investire ciò che si ha.
Guadagnare in salute, incassare in buonumore.
Come tutte le cose che vorremmo, mettiamo questa nei desideri e nelle speranze, ma, da oggi, poniamola, con un click, anche nel carrello delle volontà.

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Dio esiste e vive a Bruxelles

Dio esiste e vive a Bruxelles, un film belga che incanta e lascia un po’ straniti.
Si ride, infrangendo il tabù di Dio, o, forse, proprio per questo, si sorride.
La storia è divertente, anche se il suo potenziale non viene a pieno sfruttato.
Il regista belga Jaco Van Dormael ha la trovata geniale di attribuire a Dio la figura molto umana di un malvagio che, come dice sua figlia, aspira al potere, ma non lo merita.
Nella sua stanza dei bottoni, dopo avere inventato il mondo, lo governa prospettandogli una vita sfigata attraverso le sue mille e più leggi di Murphy, mentre brutalizza la moglie e tiene prigioniera la figlia, sorella del più famoso Jesus.
Sarà proprio la figlia, Ea, che, fuggendo, aiuterà gli uomini a recuperare il libero arbitrio, anche se la vera rivoluzione la compie la del Dio consorte, che, finalmente sola, si regala la possibilità di ridisegnare l’universo a fiori, come piace lei.
Il film è pieno di metafore e di simboli che un po’ annoiano, ma ha momenti di vera poesia visiva e offre l’interpretazione capace di una serie di bravi attori che, uno ad uno, incorniciano il quadro dell’Ultima cena, portando a diciotto il numero degli apostoli.
E’, forse, questo, l’elemento più interessante della vicenda: darsi l’occasione di ripensare alle cose senza rimanere intrappolati dagli schemi, anche i più consolidati, regala l’opportunità di fare miracoli.
Di trovare, cioè, in ciascuno di noi, la vera attitudine, a dispetto delle cattive Leggi alle quali, senza renderci conto, noi stessi ci sottomettiamo.

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Se mi lasci ti cancello

Oggi, in questa giornata di primo, ma convinto autunno, ho visto un film registrato, per me nuovo anche se del 2004: Se mi lasci ti cancello.
Diretto da Michel Gondry, ma soprattutto sceneggiato da Charly Kaufman (Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee), l’avevo salvato quando, sul sito di Repubblica, è stato annoverato tra i cento film più belli del ventunesimo secolo, scelto da una giuria di 177 critici interpellati dalla BBC.
Film non a caso molto americano, secondo me, è bello davvero.
Perdonando la pietosa traduzione del titolo (che in lingua originale suona Eternal Sunshine of the Spotless Mind ovvero Infinita letizia della mente candida così capite perché dico pietosa) e, per questo, credendo fosse una tenera commedia a stelle e strisce, sono incappata a sorpresa in un cult.
Un Jim Carrey come sempre strepitoso e una Kate Winslet che, più che nel Titanic, è bravissima, reggono il racconto scontato di un improbabile dottore che, aiutato da tre assurdi assistenti, di mestiere cancella dalla memoria dei cuori infranti l’oggetto d’amore e di dolore dal quale si vogliono separare.
La trama a volte si inceppa, ma rende onore allo sguardo visionario dei suoi autori e propone una storia alla rovescia, che parte dalla fine e, alla fine, riparte.
Non che questo aiuti a comprendere di cosa parla, ma a chi non l’ha visto ancora vorrei lasciare la sorpresa.
Ovviamente, l’epilogo è una morale, e a chi non piace non piace, ma di gustoso c’è proprio il gioco cinematografico che ribalta la realtà e la trasforma, anche se, purtroppo, con un po’ di confusione.
I personaggi sono soavi, ti accompagnano fino alla fine regalandoti soddisfazione, Se mi lasci ti cancello è da vedere.
Magari interrompendolo a metà come ho fatto io ieri sera quando ha vinto la stanchezza e dormendoci sopra.
A me, nella notte, ha lasciato un filo di inquietudine che, solo oggi, alla luce del sole, se ne è andata, anche grazie alla sua conclusione, che rimette a posto i pezzi scombinati di quest’opera.
Ma è proprio per quell’inquietudine lì che possiamo metterla, nonostante i suoi difetti, nella categoria dei film che, una volta visti, non si possono più cancellare.

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Entrambi

Adesso vi parlo dei miei genitori.
Ho la fortuna di averli ancora, entrambi, e se mentre scrivo “entrambi” sento felicità mentre scrivo “averli” capisco che li avrei comunque, anche se non fossero in vita.
Ma che ci siano ancora, qui, fisicamente, vicino a me, conta.
Conta che li possa vedere, ascoltare, guardare, andare a trovare.
Conta che mi facciano domande, che mi ascoltino.
Conta sentire la loro voce, conta osservare il loro volto vivo.
E tutto questo tempo regalato me lo sto proprio godendo.
Alberto Moravia diceva: “La vecchiaia è una malattia, e io non ce l’ho”.
Ecco, da quando i miei genitori sono vecchi nel senso di malati, e io mi occupo di loro, vivo una stagione di tenerezza che mai avrei potuto pensare di vivere con loro.
Sono stati i genitori della mia infanzia, poi della mia adolescenza, poi della mia giovinezza.
Ora sono i genitori della mia età adulta e non l’avevo immaginato.
Sono grande, ora, più di loro.
Sono un riferimento, un punto stabile, un aiuto, un sostegno, come lo sono stati loro con me.
Forse di più, anzi, certamente di più.
Ma non è essere i loro genitori, è proprio essere adulti per loro. Mi seguono, mi fanno le domande importanti, mi confidano le paure o le richieste più urgenti.
Quando arrivo, la loro faccia si trasforma in faccia di gioia. Si accendono.
Tutti i giorni vado a trovarli, così mi riconoscono senza fatica, così la frequenza diventa intensità, così diventa trama, diventa vita collegata.
E’ una quotidianità che avevo smesso di vivere, dopo che non si è più abitato insieme.
Per più vent’anni siamo stati vicini, ma non attaccati, e, ora, siamo di nuovo insieme.
Alberta: vivace, allegra, scorbutica, aggressiva, intensa, simpatica, ansiosa, originale, sopra-le-righe.
Francesco Giobbe: tranquillo, dolce, serio, severo, lento, giocoso, curioso, rigido, buono.
Due vite che si sono incrociate e unite, dalle quali vengo io.
Mistero incredibile della natura.
Legàmi.
Famiglia.
Amore.
Anzi, come si scrive oggi #legàmi, #famiglia, #amore.
E cura.
Siamo la prima generazione che deve curare così i propri genitori, loro non l’hanno fatto con i propri, e questa cosa nuova è tutta da inventare.
Si vive di più grazie ai medicinali, ora occorre costruire un modo di vivere dignitoso e felice anche da tenuti in vita.
E non è, per forza, parlando come prima, camminando come prima, facendo le cose di prima.
È proprio da inventare, per potere familiarizzare con gli stati nuovi.
Alcune cose che si facevano, alcune vecchie passioni possono essere recuperate, altre no.
Ciò che era un mestiere non è detto che si desideri, da anziani, come occupazione.
Ciò che era un piacere non è detto che si abbia ancora voglia di farlo.
Ma, certamente, ricordare e raccontare, anche se non si fa più, dà piacere e non solo a chi siamo certi che comprenda ciò che diciamo.
Vale la pena ricordare e raccontare sempre.
Per fare ciò, occorre raccogliere i racconti ed ascoltare tutte le volte che si può, anche prima.
Fatelo, così da immagazzinare cose che tirerete fuori quando vi sarà utile.
O raccogliete i pezzi che potete raccogliere, così da usarli quando sarà il tempo.
Racconti, aneddoti, fotografie, libri, riviste, giochi, oggetti, manifesti, quadri.
Tutto ciò che può servire a portare a loro il mondo che non possono più fisicamente attraversare.

Con i miei, è tutto un divertimento e una scoperta.
A patto che si sia aiutati, sempre, affinché, come figli, si possa restare leggeri.

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50, e sei sempre Jovanotti

Bando alle ciance.
Lorenzo Cherubini oggi compie 50 anni.
Era il 1988 e poi il 1989 quando, con i bambini del Crams, ballavo Go Jovanotti Go e Gimme five e, poi, La mia moto e Vasco e Il capo della banda.
I miei amici impegnati mi prendevano in giro, non era Jazz e nemmeno un cantautore, ma a me piaceva tanto.
Con gli anni, la sua musica si è diffusa e ha saputo incontrare i cuori, ma anche le teste di molti.
Credo sia un poeta, anche se dichiarare questo, come tanti anni fa, significa sentirmi dire: ESAGERATA!
Jovanotti fa ballare, fa innamorare, fa sperare.
In un concerto all’Arena di Verona di qualche anno fa, ho sentito con le mie orecchie e visto con i miei occhi una folla oceanica in estasi per lui, ma non perché suonava o cantava, perché comunicava.
Jovanotti comunica, comunica bene e comunica il bene.
Ti dice cose che ti fanno sentire importante e che ti rincuorano.
Ti dice cose che fanno sentire più bello il mondo.
È un punto di riferimento. Lo ascolti e sei contento.
E non è la musica, come dice lui, è proprio lui, che usa la musica.

Auguri Lorenzo, la tua età dimostra quanto sia relativo il passar del tempo.
Anzi, dimostra quanto il passar del tempo sia la cosa più importante che c’é.

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L’altro

Mi concedo di parlare ancora di me, di sé, del dentro di noi.
La condizione soggettiva, come si sta, come ci si sente, è molto più importante di quel che si crede e, sicuramente, del “Tutto a posto?” che oggi si usa per chiedere come va l’altro.
“Ciao, tutto a posto?”.
E cosa vuoi rispondere?
“No, ci sono pezzi rotti di cui non trovo il ricambio”.
Oppure: “Ho scombinato il puzzle e non trovo più un tassello”.
O, ancora: “Mi è caduto a terra il barattolo e si sé sparso tutto intorno”.
O, anche: “Sto cercando di riordinare, ma non so da dove partire”.

Quando è “tutto a posto”?
Mai, salvo brevi istanti in cui fotografi una sensazione, che non ha niente a che fare con lo stato delle cose, ma con te stesso.
Non a caso, esiste il “come stai?”.
Come sei tu, cosa ti succede dentro, cosa provi. La differenza è questa.
Non un inventario delle cose che hai o che ti succedono, ma una ricognizione dell’interno.
“Come stai?”.
“Boh”.
“Forse bene”.
“Triste”.
“Cerco di avere speranze”.
“Gasato”.
“Stanco”.

Al di là dei termini, sarebbe così bello fossimo realmente interessati all’altro.
Ma non solo all’amico o a chi frequentiamo (anche se quante volte non lo chiediamo nemmeno a chi vediamo tutti i giorni al lavoro?).
Dico realmente interessati proprio all’altro, a chi incrociamo per strada.
Partire da come si sta, se succede di interagire, non da cosa capita.
Basta osservare e ascoltare.
La faccia.
La voce.
Le mani.
Lo sguardo.
Allora, l’altro è evidente che sia arrabbiato, infastidito, intenerito, impaurito, sollevato e così via.
Siamo un incrocio di stati d’animo, non di fatti.
Come vanno i fatti dipende da come stiamo, non dalle leggi oggettive alle quali ci appelliamo.
I princìpi servono in sede di giudizio, ma nelle relazioni vale la serie infinita di significati che diamo alle cose.

Sembra semplice.
Non lo è.
La maggior parte delle volte siamo sordi o ciechi o programmati a vedere e sentire quello che vogliamo.
Siamo pieni di noi, anziché vuoti e disponibili.

“Come stai?”.
“Boh”.
“Ho un po’ di cose da portare in discarica, qualcos’altro da aggiustare, sono occupata”.
“Ti serve una mano?”.
“Boh, magari sì”.

Aiutare a svuotare, a liberarsi, anziché accumulare roba addosso, gli uni sugli altri.
Forse, poi, non è tutto a posto, ma va meglio.
O no?

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