La signora in barella

Ieri, usciva da una Casa di Riposo una signora in barella.
Probabilmente stavano accompagnandola a fare una visita, perché non erano di fretta e sorridevano tutti.
La signora era molto anziana, sicuramente non autosufficiente e, almeno apparentemente, come si dice in termini scientifici, conciata.
Era sdraiata, ad occhi chiusi e pallida.
Ad un certo punto, appena fuori dall’edificio, dirigendosi verso l’autoambulanza, la donna ha aperto gli occhi e ha esclamato con energia: “Se sent l’aria!”. Si sente l’aria.
Come dire: possiamo essere nel nostro guscio e non stare nemmeno molto bene, ma l’esterno, l’aria (specie se aperta), qualcosa, insomma, che ci raggiunge e ci tocca, può colpirci e rianimarci.
Qualcosa che ci solleva dal torpore in cui, per necessità, per obbligo o per scelta, ci siamo ritrovati.
Un elemento esterno, che accarezzandoci la pelle, ci fa reagire, ci fa esprimere, ci fa, cioè, “manifestare i nostri sentimenti, o le nostre idee”.
Forse, vuol dire che si può non perdere la speranza che, anche in condizioni in cui si sembra assenti, possiamo sentire?
Significa che, anche quando tutto potrebbe essere scollegato, invece, una possibilità di connessione c’è?
Sì.
Secondo me, sì.
E’ il non verbale che vince.
Le parole che impariamo servono a potere dire prima di tutto cosa vediamo e cosa ascoltiamo e, poi, a poco a poco, “cosa ci serve” e “di cosa abbiamo bisogno”.
Gradualmente, costruiamo la capacità di usarle anche per dichiarare, poi, cosa pensiamo delle cose, del mondo e di noi e, addirittura, infine, possiamo, attraverso di esse, descrivere cosa c’è dentro di noi o dietro alle cose.
Impariamo ad usarle per dire cosa immaginiamo, anche se non c’é.
Diventiamo capaci di utilizzarle per raccontare sentimenti, stati d’animo, concetti astratti, teorie complicate.
Tutto ciò è straordinario, ma il linguaggio, senza la realtà concreta, non esisterebbe.
Senza l’esperienza vitale del contatto con la realtà, del nostro venire al mondo, non ci sarebbe la nostra possibilità di dare a tutto un nome.
Allora, quando, per decadimento o per difetto, questa capacità di parlare non c’è, o non c’è più, non è vero che non c’è niente, o che non c’è più niente.
I disabili gravi, i sordi che non hanno imparato ad usare la voce, gli anziani dementi possono non parlare, ma ciò non significa che non sentano o che non vengano toccati dalla realtà intorno a loro.
Il significato delle parole può non essere acquisito o può essere andato perduto, ma ciò non significa che non si possa ricevere ciò che gli altri, o le cose, ci dicono.
“Capire” e “comprendere” significano, certo, “intendere con l’intelletto”, ma anche “contenere”, “accogliere in sé”, “abbracciare”, “racchiudere”.
L’aria che accarezza la pelle, la luce che illumina, la mano che tocca, l’acqua che disseta, il fuoco che scalda, il tè che riscalda, la piuma che solletica, la crema al cioccolato che piace, la voce che incoraggia, che loda o che consola, la musica che emoziona, non hanno bisogno di parole per essere compresi.
Questo ci deve, quindi, incoraggiare a comunicare sempre, anche con chi crediamo non capisca o non capisca più perché non capirà le nostre parole, ma la realtà e i sentimenti che gli facciamo sentire sì.
Per qualcuno è necessario che altri organizzino la comunicazione, perché non è o non è più autonomo, ma ciò che conta è che ancora presente, che possiamo parlare con lui.
Fammi sentire che ci sei, che c’è il mondo, perché se ci sei e c’è il mondo, ci sono anche io.
E non importa se la risposta non è quella a cui eravamo abituati, quella che vorremmo, perché ce n’è sicuramente una, un’altra, che possiamo, a nostra volta, comprendere e che ci può rassicurare del fatto che, in quel momento lì, non siamo soli nemmeno noi.

 

16 aprile 2016

Condividi:
FacebookTwitterGoogle+

L’amore ai tempi dei voucher

Stamattina ho passeggiato facendo il mio solito slalom, divertita, curiosa e attenta, tra i diversi personaggi che popolano il centro della mia città la domenica mattina quando c’è bel tempo.
Mamme vestite da festa con bambini in tinta, fidanzati che fanno la seconda colazione insieme, signore in libera uscita, coppie anziane innamorate un giorno su sette.
Tutti felici.
Chi esce la domenica mattina quando c’è il sole e passeggia per la città è felice, altrimenti non sarebbe lì.
Tra le chiacchiere che ascoltavo, una mi ha divertito molto.
Una ragazza dice ad un ragazzo, mentre camminano veloci distinguendosi un po’ dagli altri: “Nooo, mica è un contratto che si rinnova… quello è un voucher e (lì sono morta dal ridere) i voucher sono bastardissimi!”.
I voucher bastardissimi è troppo simpatico.
Allora, andiamo per ordine: il contratto a tempo indeterminato non veniva nemmeno nominato.
Al suo posto, sul podio, c’era il “contratto che viene rinnovato” (ovviamente a tempo determinato) e, in alternativa malefica, il VOUCHER.
Il bastardissimo voucher.
La ragazza ha, poi, aggiunto: “Quello, giorno dopo giorno, non sai se arriva!”.
Ecco, a parte la simpatia, questo è il vissuto di cui dovremmo accorgerci, noi adulti, che hanno i giovani del lavoro.
Il posto fisso è un fossile, reperto archeologico di cui la maggior parte dei ragazzi ignora l’esistenza, anche letteraria.
Il contratto a tempo determinato, che si può o no rinnovare, la norma.
Il livello di precarietà che viene sentito e che mette agitazione, è quello giornaliero, non più mensile, o annuale.
Sotto quel livello, rimane solo l’attesa del proprio destino ora dopo ora, alla “Miglio verde” per intenderci.
Che ripercussioni può avere sulle nostre anime, questo pensiero relativo al lavoro?
Nei nativi digitali, che potremmo definire anche nativi precari, cosa comporterà questo rapporto temporale sugli altri ambiti della vita?
L’amore dura ancora per sempre, almeno nei pensieri e nelle fantasie dei giovani o è, al massimo, a tempo determinato?
L’amicizia appare ancora a prova di vita o dipende dalla carica del cellulare?
Dopo la scuola, c’è il futuro o la continuazione della vita che, giorno dopo giorno, i genitori pagano?
Io sarò vecchia quando queste persone saranno gli adulti che, secondo la tradizione, dovrebbero sostenere i figli e i genitori anziani.
Ma anche questo è un pensiero antico.
Forse la nostra aspettativa di vita passerà dagli attuali ottantuno/ottantaquattro anni alla mattina del giorno dopo, forse saremo in centinaia a contenderci i pochi uomini e le poche donne rimasti in forza.
Forse, la tecnologia ci avrà regalato modalità di autonomia oggi ancora sconosciute.
Forse, sopravvivranno i ricchi, forse chi saprà costruire buone relazioni.
Di sicuro, io sarò lì ancora ad ascoltare ancora questa straordinaria specie umana, che nel corso dei secoli è riuscita, sempre, contrariamente ad ogni previsione, a stupire qualsiasi aspettativa, nel bene e nel male.
E’ il fattore sorpresa che potremmo rivalutare: al tempo del posto fisso, gli amori sembravano eterni e invece erano solo da tenere nel segreto della propria casa.
Oggi, ai tempi dei voucher, possiamo sperare che l’amore lo si possa inventare ogni giorno e che, ogni giorno, senza dare niente per scontato, ce lo si debba guadagnare.
Bastardo sì, ma molto, molto responsabilizzante.

Condividi:
FacebookTwitterGoogle+