Letizia Leviti

Ciao Letizia.
Non ti ho conosciuto, non ricordo il tuo volto, che appare nelle immagini dei servizi di Sky, non avevo mai sentito parlare di te.
Ieri sera, però, ho sentito parlare te.
Con voce debole e malata, hai lasciato un messaggio ai tuoi colleghi, e a tutti noi, che ho trovato sul sito di Repubblica.
Eri una inviata di guerra, il tuo bellissimo volto spicca sugli sfondi drammatici del mondo.
Si dice che eri brava e gentile e sensibile nel dare le notizie e nel messaggio audio che ho ascoltato, sei stata brava e gentile e sensibile anche nel dare la notizia della tua imminente morte, per malattia.
Il tuo è un messaggio di cui fare tesoro, perché non capita tutti i giorni che chi sta per lasciarci riesca ad avere il coraggio, la lucidità e la vitalità di parlare così.
Con così appassionato interesse per chi resta.
Con così infinito amore per chi resta.

Grazie Letizia Leviti, quarantacinque anni, ormai non più sulla Terra, quindi eterna.

http://video.repubblica.it/cronaca/e-morta-letizia-leviti-giornalista-di-sky-tg24-il-suo-ultimo-saluto-alla-redazione/247336/247450

 

 

 

 

 

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Restiamo umani

I macro eventi esterni, specie se drammatici, condizionano molto ciò che siamo, internamente.
Le stragi, gli attentati, i grossi incidenti, i delitti, anche se non ci toccano direttamente, provocano scosse e sussulti dentro di noi più di quanto possiamo immaginare.
Ci coinvolgono, senza permetterci di metterci mano, senza darci la possibilità di fare qualcosa direttamente.
Per empatia, sentiamo ciò che può essere accaduto ad altri, lo immaginiamo, ne soffriamo, lo viviamo come possibile anche per noi e questi sentimenti ci modificano.
Modificano la nostra stabilità.
Si tenta, e molti ci riescono, di non venire coinvolti emotivamente, ma l’operazione del cinismo è altamente a rischio.
E’ debole, ci dà apparente forza, ma ci toglie la lucidità e la possibilità profonda di partecipare al mondo.
Allora, sentire, compatire, soffrire e struggerci a distanza ci è quasi inevitabile, nella maggior parte dei casi e questo, come già detto, ci cambia.
E se non c’è la possibilità di consolare, di trattare, di intervenire, ci cambia in peggio.
Ci toglie energie, ci destabilizza, ci dà insicurezza senza che ce ne possiamo realmente rendere conto.
La vita continua, ma più stanca, più incerta.

In ogni viva e vitale comunità, gli eventi negativi sono sempre stati affrontati, per poterli superare ricavandone capacità di crescita, in due modi.
Il primo è semplice: stando insieme.
Non ognuno per conto suo, nella sua casa, nella sua famiglia, in sé, ma insieme.
Insieme, un evento tragico è uno, divisi diventa cento, mille, un milione.
Il secondo modo è: manifestando ciò che si prova.
Tirando fuori lo sconcerto, comunicando la preoccupazione, scambiando parole di conforto, domandando, rispondendo, esprimendo.

In questi giorni, vedo che questo, timidamente, accade. Lo vedo in qualche piccolo segno collettivo, come nella contenuta manifestazione indetta dall’Amministrazione Comunale della mia città o nel minuto di silenzio durante il concerto di canti alpini ieri sera in piazza.
Come nelle dichiarazioni dei capi di stato o nelle immagini delle persone che portano fiori dove c’è stata morte.
Ma sento tutto questo estremamente povero e infinitamente insufficiente.
Quando avviene, non siamo tutti e non siamo insieme.
Quando avviene, la maggior parte di volte, non partecipiamo direttamente, ma assistiamo.
Quando avviene, non diciamo la nostra, ascoltiamo quella di qualcun altro, nemmeno troppo vicino a noi.
L’insistenza con la quale i mezzi di comunicazione ci danno i nomi e i volti e le storie di chi muore ingiustamente, innocente, per atto vile e incomprensibile, ci serve per pensare a ciascuno di loro, per onorare ciascuno di loro o risponde al bisogno di incollare al video e ai giornali chi questi prodotti deve comprare?
Possiamo, nella nostra semplice e definita mente, nel nostro limitato cuore, fare entrare tutte quelle persone, con tutte le loro storie, con tutte le loro infinite e indefinite per noi caratteristiche?
No, non possiamo.
E se lo facciamo, poco dopo dobbiamo togliercelo dalla testa perché impossibile da tenere.
Diventa una cosa che passa via, che scorre, che intercettiamo per un attimo per abbandonarla appena si può.
Allora, non so.
Non so cosa si può fare, non tanto per impedire gli eventi tragici e misteriosi di questa vicenda umana, non so cosa si può fare per affrontarli, nel migliore dei modi. Oggi.
Perché si cerchi un senso, un significato, perché ci si sostenga nella fiducia comunque nella vita, perché i più piccoli imparino a non avere paura. Oggi.
Non so.
Ritrovare riti comuni, cercare parole comprensibili e condivise, riscoprire gesti utili a superare, insieme, i colpi presi. Oggi.

Per restare umani, diceva Vittorio Arrigoni.
Ecco, vorrei capire cosa possiamo fare, per restare umani.

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Cinquanta sfumature

Compiere cinquant’anni può rivelarsi drammatico o stimolante.
Nel mio piccolo panorama di conoscenze personali stravince la prima delle due sorti.
Io appartengo alla categoria degli entusiasti, ma ho la vaga sensazione che, in uno dei prossimi compleanni, toccherà anche a me deprimermi.
Questo per dire che il vero problema non è compierli. Non è varcare la soglia, superare il confine.
La difficoltà reale è tutto ciò che arriva DOPO i cinquanta.
La mia adrenalina si è esaurita in un tempo abbastanza breve, crollando insieme al resto degli ormoni.
Qualsiasi cosa io faccia, sono accompagnata da una serie infinita di disturbi, presenti e ben descritti in migliaia di blog femminili, ma per me originalissimi.
Ho, in ordine, infiammato tutti i tendini disponibili dopo avere passato l’inverno al corso di danze popolari finalizzato a tenerli in forma e, su ordine dell’ortopedico, sto camminando in scarpe con tacchi dalle quali cado distorcendomi le caviglie.
Accendo l’aria condizionata per il troppo caldo, per poi coprirmi per i brividi che sento.
Il mio cuore parte, senza avvisarmi, in concerti di extrasistole che fanno da sottofondo a tutto quello che faccio durante le mie giornate.
Piango, mi scoraggio, sono felice e soddisfatta in archi di tempo che non superano i dieci minuti e in cicli continui puntuali come orologi.
Ho fame, ma anche nausea e, contemporaneamente, lo giuro, sonno e insonnia.
Ho stretto solidarietà con tutti gli adolescenti del mondo e mi piacerebbe istituire gemellaggi per perorare la loro causa e diffondere nel mondo la cultura del perdono causa tempesta ormonale.
Bisognerebbe potere non andare a scuola e godere del congedo lavorativo.
Noi e loro dovremmo potere dedicarci solo alle nostre piccole e intense rivoluzioni endocrinologiche.
Tutto quello che facciamo di male e di sbagliato dovrebbe essere perdonato, a prescindere.
Dovrebbero essere istituiti premi, licenze e medaglie al valore.
Forse anche lauree e cittadinanze onorarie.
Ciò che ci capita non lo può capire nessuno, nemmeno noi stessi quando sarà passato.
Allora, l’unica possibilità di salvezza è quella che il mondo ci creda, andando sulla fiducia.
Che il mondo ci coccoli e ci consoli.

Invece, diventiamo odiosi e basta.
Senza appelli.
Non degni di minima comprensione, solo brutti e cattivi.

Peccato, perché se ci guardo dal di fuori, provo solo simpatia e tenerezza.
O no?

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Un cuore in due

E brava Francesca Michielin.
Vent’anni e una canzone bella dietro l’altra.
Canzoni da ventenni, canzoni giovani, forse un po’ acerbe, ma belle.
Un cuore in due, cantata con voce volutamente graffiata e ricercatamente english, è semplice e bella.
“Avere un cuore in due non è facile, ognuno vuole più della metà per sé”, canta Francesca, ed è vero.
E, “al massimo”, poi, “diventa un’abitudine”…
La Michielin azzarda il fatto di sapere già come può andare a finire e questo significa, essendo i suoi pezzi fortemente autobiografici, che l’ha provato, che c’è già passata, in mezzo alla fine non tanto di un amore, ma dell’idea di quell’amore. E ne è uscita libera.
In un’intervista ha dichiarato che “vuole trovare in sé la fonte di felicità” ed è questo che la distingue da molti altri suoi coetanei, concentrati sulla ricerca altrove o non concentrati.
Ma, così, si può essere se si crea, se esiste un livello di soddisfazione/realizzazione personale forte, basato sulla possibilità di dire qualcosa di nuovo e di riuscire a dirlo bene.
Per questo, credo che, fin da molto, molto piccoli, occorrerebbe essere educati, formati, a creare, appunto.
Inventare storie, inventare poesie, musiche, canzoni.
Non importano i risultati, non si tratta di arte, si tratta di vita.
Si tratta di imparare che si può dire, fare (e anche baciare) nella forma che si ritiene più propria, più possibile. Che si può e che è bello.
Occorre incoraggiare i bambini a non aver paura di tirare fuori quello che sono dentro, anche in zone che non si conoscono fino a quando non escono.
Ma ciò che conta non è solo stimolare, e in modo strutturato, come fa bene ai piccoli, attraverso giochi, attività, esperienze concrete, ciò che conta è gratificare dopo.
Ciò che conta è fare sentire forti, bravi e capaci.
Tutto si può aggiustare, tutto si può migliorare, ma se la fiducia in ciò che emerge dai flutti della propria mente e anima non cresce insieme a noi, sarà difficile aprirsi dopo.

Brava Michielin, ma bravi anche i tuoi.
Sono sicura che credono in te.

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Grazie a te

Con due giorni di ritardo commemoro anch’io la partenza per altri luoghi di Bud Spencer.
I fatti di Istanbul hanno spento l’eco che aveva lasciato in me la notizia della sua morte, ma oggi lo voglio ricordare.
“Era il mio idolo” mi ha scritto in un sms mio fratello, “combatteva la prepotenza degli uomini” ha aggiunto.
Tenerezza.
Per lui e per mio fratello.
Tenerezza per un sentimento che si era acceso in molti bambini degli anni Sessanta.
Un uomo forte e buono, come vorremmo fossero tutti, tutti gli adulti che ci proteggono e ci guidano quando siamo piccoli.
Ma non un buono così, buono e basta.
Era un buono con intenzione. Un buono che agisce, che non si tira indietro davanti alle ingiustizie, che non ha paura, un buono che colpisce, in tutti i sensi.
Ecco, Bud Spencer rappresentava la possibilità che qualcuno potesse fermare chi, come ha detto mio fratello, era prepotente e violento.
Come tanti ci è capitato di incontrare, anche da bambini.
Qualcuno che risarcisse le mortificazioni che ognuno vive, mille volte, senza, poi, purtroppo o per fortuna, ricordarsele più.
Qualcuno che mettesse in ordine le cose, come vorremmo che fossero.
Senza troppe parole e talmente diretto da far finire tutto in una risata.
Bud Spencer era Bud Spencer anche nei film, era lui il personaggio.
Così credibile da farlo ricordare non come un attore, ma come qualcuno che, veramente, combatteva per difendere i deboli.
Come un eroe.
Pare che le sue ultime parole siano state “Grazie a tutti”.
Sì, direi proprio un eroe.

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Tema di maturità

Me lo ricordo bene il tema della mia maturità.
Si riferiva all’importanza dei “mezzi di comunicazione”.
Il titolo preciso non lo ricordo, ma so che l’ho scelto perché mi dava la possibilità di fare un lavoro ampio, libero.
Chi l’ha affrontato, più o meno, credo si ricordi del proprio esame.
Ognuno sa, a grandi linee, cosa è successo, ma, di sicuro, rammenta i particolari.
Per me è stata l’emozione enorme del giorno precedente e della mattina stessa e di come, prima di entrare, ho dovuto cercare una strategia per calmarmi perché altrimenti non ce l’avrei fatta.
Ricordo che ho guardato fuori dalla finestra della scuola e, dalla mia intensa e drammatica situazione, guardando il cielo, mi sono alzata su, su, fino a che  la mia postazione non è diventata piccola e stupida.
Sì, ricordo che ho visualizzato il mio andare in alto e, da lì, ho potuto vedere quanto era minuscolo ciò che mi stava succedendo.
Così mi sono rilassata e sono entrata.
Del fatto che i titoli fossero sconosciuti e a sorpresa ero contenta, oggi so che il fattore novità è necessario per potere creare. Si sapessero le tracce prima, non si produrrebbe nulla.
L’adrenalina del momento, fatta di desiderio di riuscire, emozione e un tempo definito nel quale stare, unita ai titoli improvvisi e nuovi scatena.
Anche se nel primo momento può sembrare ci sia il nulla, poi la scintilla scocca.
Stamattina, tra le diverse tracce, avrei scelto quella riguardante il voto alle donne di settant’anni fa.
Non per celebrarlo, oggi è una cosa naturale e questo bisogno non l’avrei sentito.
L’avrei scelto, anche questa volta, perché mi avrebbe permesso di ampliare, di sviluppare liberamente un pensiero, a partire dal voto alle donne.
Un pensiero su come eravamo, su come siamo, su come potremmo essere domani.
Un viaggio, con gli occhi di oggi, per comprendere cosa reggeva le regole di quel tempo e cosa è riuscito a farle cambiare.
Chi ha promosso quel cambiamento?
Chi l’ha goduto?
A cosa serve, ma, soprattutto, cosa significa?

Mi piacerebbe molto leggere gli scritti che, stamattina, sono usciti dalle penne (le penne!) degli studenti gobbi sui fogli (i fogli!).
So che qualcuno ha sofferto della fatica fisica di scrivere, di fare quella cosa che una volta si chiamava scrivere, con l’inchiostro, pur rinchiuso in una penna a sfera.
So di qualcuno che, dopo tre ore, non ce la faceva più, con i muscoli indolenziti come quando cammini per ore in montagna e, anche se ogni giorno quella cosa lì la fai, non la fai per così tanto tempo e senza fermarti.
Sì, lavorare ad un tema, scrivendo per sei ore, è un po’ come scalare una montagna che non hai mai affrontato, con lo zaino in spalla, sotto il sole.
Si vede la vetta, ma per raggiungerla devi sudare, passo dopo passo e non puoi smettere fino a quando non sarai arrivato.
Sai che verrai giudicato, ma quello che puoi fare è solo cercare di mettercela tutta per, poi, accettare quello che verrà.
Hai la mente che spazia in mille cose che potrebbero uscire, in mille possibilità, ma è evidente che occorre sceglierne alcune, solo alcune per, poi, cercare di organizzarle.
Devi rileggere, ripensare, rifare, rivedere.
Ci sono momenti in cui ti sembra che tutto sia sbagliato, altri in cui sai di potere farcela.
Sei libero, ma devi stare nel sentiero che ti è stato indicato.
Infine, sai di avere tanto tempo, ma, minuto dopo minuto, questo si accorcia ed è chiaro che ci sarà una scadenza che non sceglierai tu.

Ragazzi, come potrebbe chiamarsi tutto ciò, se non maturità?

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Imerovigli

Due fidanzati giovani e carichi di energia, in moto a Santorini.
Lui guida elegante, lei molto coinvolta.
Parcheggiano e camminano per le vie tortuose e luminose di Imerovigli.
Lui abbronzato e fiero, lei devastata da un herpes che non dà tregua.
Sotto il vestito leggero, messo in valigia con amore, si sparge una miriade di puntini rossi in disegni che partono dal collo e scendono verso le magre gambe rosse.
Lui parla poco, è impegnato nella visita.
Lei, ogni tanto gli chiede un bacio, è evidente che non è concentrata sul borgo.
Non stanno insieme da molto, lo si capisce dal fatto che, nonostante l’herpes, lei non fa il minimo accenno alla sofferenza, evidente a me, invece, che, a differenza del ragazzo, la guardo.
Verrà il tempo in cui griderà vendetta, gli confesserà il disagio e il ricordo si trasformerà: non più baci e tramonto e meravigliosa Grecia, ma vaffanculo tu che non te ne rendevi neanche conto.
In malora te e le foto sotto il sole, sono stata così male.

Lui non ricorderà né le foto, né il paesino, né le vacanze.
Ma non è lui il regista di questo classico, non è lui ad aver scritto questa commedia.
Lui non si è nemmeno reso conto.
A definire la trama è la ragazza che, per amore, o così le sembra, sceglie di subire, senza sapere che, se parlasse, forse lui le coprirebbe le spalle con un telo e la porterebbe all’ombra per baciarla lievemente.

Alla fine, questo bisogna insegnare alle giovani donne, alle bambine:
se si vuole bene al sé, si merita l’amore dell’altro.

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Laboratorio di autobiografia

Nelle giornate di giovedì 14, venerdì 15 e sabato 16 luglio prossimi, a Pasturo, in Valsassina (provincia di Lecco), si terrà un LABORATORIO DI AUTOBIOGRAFIA intitolato “Scritture nella casa di Antonia Pozzi” e condotto da Betty Lazzarotto e Paola Franciosi.

Il laboratorio, con il patrocinio della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, è aperto a tutti ed è inserito nel più ampio progetto ESTATE SULLE ORME DELLA POETESSA ANTONIA POZZI che intende far conoscere la vita e l’esperienza della poetessa Antonia Pozzi, sviluppando proposte turistico/culturali nel territorio della Valsassina ed in particolare a Pasturo.

Il progetto verrà inaugurato nella giornata di sabato 9 luglio, alle 18, con

“UNA VITA PER LE PAROLE: ANTONIA POZZI E LA SUA POESIA”

intervento di STEFANO RAIMONDI, poeta e critico letterario, tra i fondatori dell’Accademia del Silenzio

e prevede, nella serata di giovedì 14 luglio, alle 20.30, l’incontro con il Prof. DUCCIO DEMETRIO

“DAL RACCONTO DEI LUOGHI ALLE DIMORE DELLA SCRITTURA INTERIORE”

PER INFORMAZIONI sul PROGRAMMA :

Responsabile Formazione : Maggi Simona s.maggi@consorzioconsolida.it

Consorzio Consolida Lecco – Via Belvedere 19

23900 Lecco

Telefono 0341286419

 

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La ciambella blu

Cinque bambini corrono verso il mare.
Sono zingari.
Il più grande avrà nove, dieci anni, poi, a seguire, gli altri quattro, fino al più piccolo che, nudo, cerca di stare al passo.
Si divertono, sono un gruppo.
Nella pineta dietro di noi, il pick up e l’ammasso di roba per vivere, con il papà sdraiato e la mamma accanto che chiacchiera con lui.
Il penultimo ha indosso un costume rotto, tenuto insieme da un nodo.
Si buttano nell’acqua, i più grandi, gli altri a poco a poco, rabbrividendo e trattenendo il fiato tanto da fare uscire le ossa dal magro costato.
Sulla spiaggia, lentamente, avanza una comitiva di tedeschi, cinque o sei adulti, e due bambine.
Le bambine, bionde, fanno rotolare una ciambella blu, enorme, che corre spinta dal vento.
Il salvagente sfugge alle due e rotola, rotola, prima timidamente, poi sempre più veloce, fino all’acqua.
Lì, si sdraia, soddisfatto e, a poco a poco, si allontana.
I tedeschi corrono, una di loro si spoglia, neanche troppo velocemente, e si butta in acqua.
La lentezza dell’operazione, in rapporto alla velocità del vento che soffia la ciambella al largo, è evidente.
Quando la donna lascia la riva, la ciambella è un puntino blu tra i flutti.
I cinque zingari, che hanno seguito tutta l’operazione urlando e sbracciandosi, si rassegnano delusi, mentre il resto del gruppo non si muove.
Le due bambine sono mute e condividono lo sconforto con i nomadi coetanei.
Ma, quando sembra che la scena sia conclusa, dal largo arriva un gommone a motore, lanciato, che raggiunge la riva.
Sul gommone, un bel giovane con barba e occhiali a specchio e vicino a lui la ciambella.
Cavolo, l’ha recuperata.
I tedeschi guardano senza parlare, ma, soprattutto, senza ringraziare e, dopo qualche attimo di spaesamento, il giovane getta il salvagente a riva, si gira e se ne va.
Così fanno i tedeschi, e si capisce che ordinano alle bambine di fare altrettanto.
Forse, le stanno punendo, forse la ciambella ha finito di essere loro quando i cinque bambini scuri hanno incominciato a farle festa.
La prendono, si occupano di lei, cercano di consegnarla alla grande famiglia bionda, ma si accorgono che a loro non interessa più perché, senza rispondere, si allontanano.
Evviva, è tutta loro.
Diventa un gran giocare e se la godono fino a quando non si buca e, come pelle morta, rimane tra le cassette e le coperte del loro accampamento.
Che storia, la ciambella, stamattina era quieta, addormentata all’emporio e guarda dov’è finita.
Ma, soprattutto, chi l’avrebbe detto.
Il destino, a volte, è dato dal vento, a volte lo decide l’uomo.
Ma sempre, sempre, scorre veloce e tutto continua a cambiare.
C’era una volta una ciambella blu che si svegliò tutta sgonfia e sola in mezzo ad una pineta dopo un violento temporale che aveva fatto scappare tutti al riparo.
E un bimbo la raccolse per poterla aggiustare.

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