Senza fine

Come funghi dopo la pioggia a fine agosto, il giorno dopo l’weekend di Halloween sono spuntati i panettoni negli scaffali dei supermercati .
E’ presto! Tutti esclamano, ma la ruota gira ugualmente.
Dopo la Festa di Ognissanti incomincia il Natale, dopo il Natale incomincia il Carnevale, dopo il Carnevale la Festa del Papà, poi la Pasqua e poi la Festa della Mamma e così via.
Non c’è pausa, non c’è riposo, non c’è ristoro.
La linea del tempo è continua, senza più punti, né virgole, è piatta.
Invece, il Tempo è un’altra cosa, è caos, è disordine, è rimpianto, è incomprensione, è vuoto, è tutto quello che sentiamo, misurandoci con il calendario, con l’orologio, con le agende che dettano la legge che noi cerchiamo di aggirare.
Nelle feste e nelle vacanze, poi, il rischio è di prendere appuntamenti come se fossero di  lavoro e, il lunedì mattina ritorna come su di un nastro trasportatore.
Allora?
Allora, basta.
Svuotiamo, liberiamo, fermiamo.
Anche se è difficile, anche se sembra impossibile.
Mettiamo in agenda il tempo vuoto, cosa ne dite?

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Auguri papà

Non ci sei più da un anno, o meglio, un anno fa ti portavo l’ultima torta, piccola, carina, con scritto “I love papà”.
Oggi, sicuramente, sei più felice, io meno, ma ti ho nel cuore.
Ci ho messo tanto, non ho finito, a spostarti dal fuori al dentro.
Per me sei ancora in viaggio, io sono in viaggio.
Papà, viaggiare ti piaceva molto, ti piaceva andare in giro, curiosare, guardare, leggere, capire, parlare con la gente.
Ti immagino così, ora.
Ti immagino che vai in giro, che curiosi, che guardi, che leggi, che capisci, che parli con la gente.
Mi manchi immensamente, so che, per quello che puoi, ci aiuti.
Mi sento un puntino piccolo, tra i milioni di puntini piccoli a cui è morta una persona cara.
Ogni dolore è immenso, ogni pianto inconsolabile e questo mi meraviglia.
Mi meraviglia quanto ogni piccola storia sia grande come l’Universo, ma è proprio questo Universo che ci può aiutare a starci dentro, a diventare più grandi del nostro dolore.
Ciao papà, di tutto questo avrei parlato con te.
Oggi, di tutto questo parlo con te.

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Magica Fletcher

Magica, magica Fletcher. La adoro.
È un punto di riferimento femminile che non ha epoca, profondamente occidentale, divinamente eterna.
Classe 1925, dico 1925, Angela Lansbury ha proposto il personaggio di Jessica Fletcher (nata Jessica Beatrice MacGill), insegnante di inglese e scrittrice di successo, dal 1984 al 1996, nella serie “La signora in giallo”.
Jessica B. Fletcher viene descritta come “intuitiva, ironica, profonda conoscitrice dell’animo umano, capace di mantenere la calma nelle situazioni più disperate, perspicace, con grande capacità di osservazione”, ma, per me, è soprattutto una donna che, pur circondata da mille persone che la amano, sa stare da sola.
Indipendente, ma assolutamente sentimentale, del suo non avere avuto figli dice, in uno dei 264 episodi  della serie, che “lei e il marito non hanno avuto la fortuna di ricevere questa benedizione”.
Non nega le sue debolezze, ammette i rimorsi e i rimpianti, proprio perché ha il grande coraggio di chi non ha paura di sé.
Lo so, è un’invenzione cinematografica, ma io la guardo, l’ascolto e penso che vorrei essere come lei.
La sua figura rappresenta il modello di chi avrei voluto avere come guida negli anni acerbi e fragili della mia adolescenza.
Lei è la donna con cui lavorerei, con cui viaggerei, con cui cenerei, con cui discuterei di tutte le cose della vita.
È la nonna, la madre, la zia del mio immaginario.
È la persona che augurerei al fianco di tutte le donne del mondo per aiutarle ad avere consapevolezza di sé e capacità di riconoscere cosa si vuole e dove si vuole andare.
Ma, soprattutto, cosa a cui non bisogna credere.
Insomma, sono innamorata della Signora in giallo, lo confesso, e sogno di essere da lei adottata.
Magica, magica Fletcher.

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La memoria e il cuore

Non scrivo qui da più di un mese.
In questo mese è morto mio papà e non c’è nulla di più personale che dare questa notizia, che scrivere di questo in questo blog.
Eppure, lo devo fare, altrimenti non continuo.
Tutto ciò che era prima, ora non è più.
Tutto il mondo di prima è un altro mondo, oggi.
Tutta la vita, è un’altra vita.
Questo scritto lo dedico a chi ha già vissuto questo dolore, ma anche a chi lo non lo conosce ancora, perché è uno scritto che dedico alla vita e alla morte, insieme.
Le due cose non sono divisibili, ora lo so, anche se una delle due rimane sempre in ombra, perlomeno nella nostra cultura.
Io, alla morte dei miei genitori, ho pensato cento, mille, un milione di volte, ma ciò in cui il mio pensiero si traduceva immediatamente, impedendomi di sentire altro, era la paura.
E, incredibilmente, la paura, quando è successo per davvero, è stata l’unica cosa che non ho provato.
Ho sentito il senso crudo di realtà che in poche occasioni capita di vivere, ho vissuto lo scorrere preciso di pensieri e di azioni che capitano quando è necessario fare fronte ad un evento più grande di noi.
Ho provato la sequenza forte di momenti unici e importanti che rimarranno impressi per sempre nella mia memoria e nella memoria di chi li ha condivisi con me.
È vero che conta non essere soli, ma non solo nel senso di avere persone che ti esprimono vicinanza, soprattutto nel senso di provare quella cosa lì insieme ad altri che provano proprio quella cosa lì.
È un unico dolore che viene diviso in più parti e ce la fai se lo condividi perché diventa più leggero, diventa possibile da vivere.
Poi, a riflettori spenti, quando ognuno torna a casa, ciò che ti cade addosso è un macigno che non riesci ad evitare.
Arrivano onde anomale di dolore che ti sommergono senza preavviso. In un momento sei serena, mangi, guardi la televisione e nel momento dopo sei morta anche tu, seppellita da una mancanza e da un vuoto che non si possono descrivere.
Mio papà, come tutti i papà, è nel mio sangue, nella mia pelle, nei miei muscoli, nei miei occhi, nel mio cuore.
Mio papà, come tutti i papà belli e buoni, è anche nella mia anima, come uno specchio nel quale mi rifletto.
Mio papà è nella mia storia, le mie azioni sono state condizionate dalle sue, prima nella dipendenza da lui, poi nella libertà che ho conquistato lottando contro di lui ed, infine, nella straordinaria possibilità di occuparmi di lui con tenerezza.
Ciò che, oggi, posso dire di non avere perso è la sensazione di amore che ha riempito gli ultimi  anni della nostra vita insieme.
Sempre, l’ho amato, ma durante la sua vecchiaia, questo amore è esploso, senza più fatiche.
“Sei come la mia mamma” una sera di un anno fa mi ha detto e io non solo lo ricorderò per sempre,  so di essere anche diventata quella frase lì.
Io sono anche ciò che sono stata con lui e questo non muore.
Tutti coloro che credono, me compresa, mi consolano con parole che invitano a pensarlo felice e spiritualmente vivo.
Ciò che accade, ora, però, è qualcosa di più umano, di più terreno, ovvero il senso della morte che sta insieme al desiderio di vivere ancora.
Di rinascere, di ritornare alla vita leggera, quella delle mattine di vento al mare, dei pranzi di festa con il buon cibo, dei viaggi intensi a visitare il mondo, del riposo dopo il lavoro, della luce del lago in primavera.
Ora, ciò che riempie le mie giornate è la convivenza tra il disperato bisogno di sentire ancora la sua voce e la necessità fisica di proseguire senza tristezza, nonostante la sua voce non ci sia più.
Non è la teoria, ciò che sento oggi, è la pratica intensa delle ore che continuano in cui, a poco a poco, la vita ritorna in primo piano, dopo giorni in cui era diventata un film sullo sfondo.

Non so cosa è più giusto fare in questi incredibili momenti, ma di sicuro so cosa sta facendo bene a me e ciò che mi sta facendo bene è il darmi la possibilità di esprimermi, trovando in libertà tutte le possibilità che riesco a trovare.
Come voglio, con chi voglio e quando voglio.
Non so se mio papà mi ha insegnato questo, forse l’ho imparato io.
Lui mi ha chiamata in questo mondo e mi ha lasciato ciò che è stato.
Io posso proseguire nel mio cammino, che è stato anche il suo e che è quello del mondo.

Le ultime parole che gli ho sussurrato prima di vederlo sparire per sempre sono state “arrivederci papà”.
La morte, adesso, mi fa meno paura di prima, perché l’ho conosciuta.

Grazie papà, da un fifone come eri a una fifona come sono io, questo è un regalo meraviglioso.

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Ciao Cino Tortorella

Tutte le persone che hanno la mia età non possono non ricordare il Mago Zurlì.
Si chiamava Cino Tortorella, ma, in realtà, era Mago Zurlì.
Ed esisteva davvero.
Con la sua gentilezza ha conquistato migliaia di bambini e la sua presenza leggera era talmente delicata da sembrare una nuvola.
Azzurra.
Io l’ho conosciuto di persona, in uno spettacolo al Teatro Angelicum di Milano.
Sono salita sul palco e ho cantato “Viva la pappa col pomodoro”.
Lui mi ha fatto qualche domanda e, alla fine, mi ha riempito la borsetta di caramelle.
Anni dopo, questa borsetta, che mi ricordavo gigantesca, mi è riapparsa tra le mani minuscola come quella di una bambola.
Oggi, Mago Zurlì è morto e con lui è morto un pezzo di quella storia, già addormentata da secoli.
L’infanzia, anche se non c’è più, rimane sullo sfondo come un film.
Riemerge a tratti e, più passa il tempo, più ti commuovi quando arriva.
L’infanzia, più passa il tempo e più ritorna, come nei vecchi, che riavvolgono il nastro e, alla fine, per ultimo, rimane il primo momento.
Ciao Cino Tortorella, ciao ai tuoi novant’anni, ciao ai tuoi capelli da Principe, perché più che un Mago eri un Principe, ciao alla tua improbabile calzamaglia e alla tua voce così paziente da farti sembrare sempre confuso.
Ciao, anzi arrivederci, Cino Tortorella.

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Le donne

Tre donne italiane, sessantenni, sole, abbastanza felici.
Vestiti colorati, per quello che noi italiani ci possiamo permettere.
Giallo, blu con disegni rossi, verdino.
Osservano altre donne, loro cubane, e le ascoltano parlare.
Vacanze al femminile, libere da impegni relazionali.
Forse in pensione, ultimi casi di persone ancora giovani che si regalano del tempo.
Visite, passeggiate, escursioni, cene insieme.
Loro non ballano, non sono tedesche scatenate, forse hanno anche fatto qualche corso di salsa, a casa, ma qui si vergognano un po’.
Però, guardano il mondo e, spesso, ridono.
Dopo avere lavorato, riposano e, con gli occhiali sulla punta del naso, mandano messaggi gratuiti lanciati in Rete.
Quando andavano a scuola, da piccole, c’era il calamaio e la maestra poteva colpire la mano con la riga.
Per telefonare occorreva infilare il dito in un tamburo e la tele era in bianco e nero.
Volare significava spendere lo stipendio di un anno e per leggere un giornale il mattino presto occorreva scendere in strada al buio.
Oggi, sono felicemente connesse e si sentono anche più sicure.
Bevono succo, mangiano sandwiches e vanno a letto presto.
Il loro aereo le riporterà in case gradevoli, con figli e nipoti ancora da curare.
Usciranno a mangiare la pizza con qualcuno a cui racconteranno del viaggio e si rimetteranno sciarpe e cappotti in attesa della primavera.
Viva le donne, che sono capaci di vivere a poco a poco, con ordine e precisione.
In tutti i posti del mondo.
L’uomo “lavora”, loro vivono, senza differenze di impegno e fatica.
Il loro tempo è intero, sempre presente, ma riescono a dedicarsi contemporaneamente al passato e al futuro.
Ricordano, progettano, conservano, cambiano.
Viva le donne.
Tutte.

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Buon Anno

È il primo Capodanno del mio blog.
Scrivere è un grande regalo che ci si fa, lo consiglio a tutti.
Non è che DEVI sapere scrivere o che devi scrivere BENE, scrivi, prova, vedrai che serve.
È una questione di esercizio e di fiducia in sé stessi.
Già provare è curativo, proseguire diventa terapeutico.

Ecco, auguro a tutti di avere più fiducia in sé e scelgo questo proposito perché dietro a molti disagi e malesseri c’è proprio il non credere di potercela fare. Fa sentire tristi, arrabbiati, nervosi, finiti.
E non è una cosa facile venirne fuori, non tutti abbiamo avuto grandi supporter da piccoli.
Ma essere adulti significa non potere più crescere?
No, e questo è veramente il pilastro sul quale appoggio tutto il mio lavoro: in ogni momento della vita si può evolvere, si può cambiare.

Auguro a tutti di provare a cambiare qualcosa, non è detto che ci si riesca, ma il tentativo sarà già girare pagina, tutta da riempire.

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Non so

La morte di un giovane non è una morte, sono tante morti.
Muore lui, muore la sua gioventù, muoiono i desideri e i sogni che chi lo amava aveva per lui e muore, per un po’, il senso generale della vita.
È una morte che appare disumana, pur inserita nel nostro universo terreno.
Non la immagini, non la capisci, non la vuoi, non la accetti, non la ragioni.
La morte suicida di un giovane è tutto questo all’ennesima potenza, non è solo tragica, è surreale.
Qualsiasi riflessione è vana, lui non c’è più e non si riuscirà in nessun modo a parlargli ancora.
I pensieri cercano di sistemare i pezzi del significato-di-tutto andati in frantumi, ma il cuore si strappa, perduto.
Il dolore è infinito, proprio nel vero senso del termine, si spande per tutto il mondo.
Non c’è un verso per il quale prendere la vicenda, è solo immensamente assurda.
La tua vita, dopo, non è più la stessa vita.
Ciò che è accaduto cammina con te ovunque vai, per sempre.
La tua vita ospiterà per sempre la sua, ferma nel momento in cui ti è stata data la notizia.
La tua continua, ed è l’unica certezza, il resto oscilla, incespica, appare solo misterioso e strano.
Non so cosa si può fare, dire, cercare, non lo so.
So che l’unico momento in cui ci si consola è quando si prova pena.
È quando si viene invasi dalla tenerezza.
In quei momenti, si soffre, ma sembra di riacquistare calore, sembra che le cose ritornino vive.
Forse occorre continuare a parlare a quella persona, continuare a discorrere con lei.
Forse bisogna lasciarla andare e cercare solo di rimanere.
Non lo so.

La morte suicida di un giovane è di sicuro, per chi resta, una prova di vita e questo solo so, ora.

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La signora in barella

Ieri, usciva da una Casa di Riposo una signora in barella.
Probabilmente stavano accompagnandola a fare una visita, perché non erano di fretta e sorridevano tutti.
La signora era molto anziana, sicuramente non autosufficiente e, almeno apparentemente, come si dice in termini scientifici, conciata.
Era sdraiata, ad occhi chiusi e pallida.
Ad un certo punto, appena fuori dall’edificio, dirigendosi verso l’autoambulanza, la donna ha aperto gli occhi e ha esclamato con energia: “Se sent l’aria!”. Si sente l’aria.
Come dire: possiamo essere nel nostro guscio e non stare nemmeno molto bene, ma l’esterno, l’aria (specie se aperta), qualcosa, insomma, che ci raggiunge e ci tocca, può colpirci e rianimarci.
Qualcosa che ci solleva dal torpore in cui, per necessità, per obbligo o per scelta, ci siamo ritrovati.
Un elemento esterno, che accarezzandoci la pelle, ci fa reagire, ci fa esprimere, ci fa, cioè, “manifestare i nostri sentimenti, o le nostre idee”.
Forse, vuol dire che si può non perdere la speranza che, anche in condizioni in cui si sembra assenti, possiamo sentire?
Significa che, anche quando tutto potrebbe essere scollegato, invece, una possibilità di connessione c’è?
Sì.
Secondo me, sì.
E’ il non verbale che vince.
Le parole che impariamo servono a potere dire prima di tutto cosa vediamo e cosa ascoltiamo e, poi, a poco a poco, “cosa ci serve” e “di cosa abbiamo bisogno”.
Gradualmente, costruiamo la capacità di usarle anche per dichiarare, poi, cosa pensiamo delle cose, del mondo e di noi e, addirittura, infine, possiamo, attraverso di esse, descrivere cosa c’è dentro di noi o dietro alle cose.
Impariamo ad usarle per dire cosa immaginiamo, anche se non c’é.
Diventiamo capaci di utilizzarle per raccontare sentimenti, stati d’animo, concetti astratti, teorie complicate.
Tutto ciò è straordinario, ma il linguaggio, senza la realtà concreta, non esisterebbe.
Senza l’esperienza vitale del contatto con la realtà, del nostro venire al mondo, non ci sarebbe la nostra possibilità di dare a tutto un nome.
Allora, quando, per decadimento o per difetto, questa capacità di parlare non c’è, o non c’è più, non è vero che non c’è niente, o che non c’è più niente.
I disabili gravi, i sordi che non hanno imparato ad usare la voce, gli anziani dementi possono non parlare, ma ciò non significa che non sentano o che non vengano toccati dalla realtà intorno a loro.
Il significato delle parole può non essere acquisito o può essere andato perduto, ma ciò non significa che non si possa ricevere ciò che gli altri, o le cose, ci dicono.
“Capire” e “comprendere” significano, certo, “intendere con l’intelletto”, ma anche “contenere”, “accogliere in sé”, “abbracciare”, “racchiudere”.
L’aria che accarezza la pelle, la luce che illumina, la mano che tocca, l’acqua che disseta, il fuoco che scalda, il tè che riscalda, la piuma che solletica, la crema al cioccolato che piace, la voce che incoraggia, che loda o che consola, la musica che emoziona, non hanno bisogno di parole per essere compresi.
Questo ci deve, quindi, incoraggiare a comunicare sempre, anche con chi crediamo non capisca o non capisca più perché non capirà le nostre parole, ma la realtà e i sentimenti che gli facciamo sentire sì.
Per qualcuno è necessario che altri organizzino la comunicazione, perché non è o non è più autonomo, ma ciò che conta è che ancora presente, che possiamo parlare con lui.
Fammi sentire che ci sei, che c’è il mondo, perché se ci sei e c’è il mondo, ci sono anche io.
E non importa se la risposta non è quella a cui eravamo abituati, quella che vorremmo, perché ce n’è sicuramente una, un’altra, che possiamo, a nostra volta, comprendere e che ci può rassicurare del fatto che, in quel momento lì, non siamo soli nemmeno noi.

 

16 aprile 2016

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