Viva Tallinn

Partire per le vacanze significa interrompere il flusso quotidiano e, letteralmente, sospendere l’attività.
L’esito di questa operazione può essere positivo, perché si stacca, ci si riposa, si recupera energia, si guardano le cose da fuori, ci si diverte, ma anche negativo, proprio perché vengono a mancare i riferimenti che ciascuno ha nella sua vita di tutti i giorni.
Se l’equilibrio personale è fragile, la vacanza può destabilizzare, portare i nodi al pettine, togliere sicurezza e seminare disordine nelle relazioni, perse nel tempo vuoto.
Proprio per questo, solitamente, la vacanza viene riempita di tutto ciò che può tenerci in piedi: sicurezze, punti di riferimento, attività come se fossero lavoro.
Lo sanno bene gli operatori turistici, chi organizza i tour, le crociere, i viaggi organizzati.
Il cliente, il turista, non deve sentirsi perso nel tempo nuovo e diverso che ha, ma circondato di elementi che lo facciano sentire bene.
Familiarità, cibo, movimento, orari prefissati, accudimento e custodia.

Tutto questo, se il viaggio è fai-da-te, viene cercato e definito da soli e la cosa interessante è accorgersene.
L’hotel, la casa in affitto, la roulotte o il bungalow che si affittano diventano casa nel momento in cui li riempiamo dei nostri oggetti. La mensola in bagno, il comodino, l’armadio, la cucina.
Il custode del villaggio, chi sta nella reception della pensione, l’host dell’Aribnb, il cameriere del ristorante, sono i genitori che ci danno alloggio e ristoro e che si prendono cura di noi.
In vacanza, anzi, si ha la possibilità di essere serviti (e riveriti, direbbe mia nonna) e questo aumenta il piacere che lo stacco dà.
Questa estate sono stata nei Paesi Baltici, in un viaggio itinerante nelle tre capitali, ma anche nelle bellissime località costiere, isolane e contadine che questi Paesi offrono e sono stata benissimo.
Cibo ottimo, letti comodissimi, pulizia, ordine, tranquillità e quiete uniti a vivacità, movimento e sensazione di progresso.
Cosa si vuole di più da un luogo, da un paese?
Non abbiamo mai trovato degrado. Abbiamo incontrato povertà, soprattutto nelle periferie ex sovietiche dove è chiaro che non ci sono i soldi per riparare niente e le case sono tutte storte e consumate dal tempo, ma degrado mai.
Non abbiamo incontrato disagio, perlomeno apparente ai nostri occhi.
Ci sono molti venditori di fiori e di frutta che, evidentemente, chiedono la carità dell’acquisto per potere sopravvivere, ma lo fanno operosamente e dignitosamente.
I Paesi Baltici sono denominati tigri proprio per lo scatto di sviluppo che stanno vivendo (Pil in forte crescita e debito pubblico molto basso) e questa aria si respira quasi dappertutto.
I giovani, molto molto giovani, lavorano ovunque, con facilità e questo ti fa sentire circondato da impeti ed entusiasmi che galvanizzano.
I turisti sono trattati con moderazione, non con il calore che contraddistingue i popoli del Mediterraneo, ma è tutto organizzato in modo che funzioni, dai mezzi pubblici ai servizi di tutti i generi.
Insomma, nei quindici giorni in cui ho staccato, non solo ho potuto conoscere terre e popoli diversi, sono anche riuscita a prendere una boccata d’aria di educazione civica e di voglia di crescere che, in Italia, non stiamo più respirando da tempo.
Perché non provare a cambiare atteggiamento? Basta polemiche, lamenti, accuse, minacce e basta pensare solo a sé e ai propri interessi. Curare la cosa pubblica, contribuendo in modo personale nel rispetto di leggi rispettose fa stare bene, molto bene.
L’unica sera in cui non riuscivamo a prender sonno perché sotto casa c’erano persone che parlavano ad alta voce  pur essendo orario notturno, parlavano in italiano.

Perché non possiamo cambiare (e progredire) anche noi?

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No, grazie

C’è un fenomeno a cui sto assistendo in questi giorni che mi inquieta.
Si tratta delle reazioni, feroci ed agguerrite, contro chi manifesta a favore dei migranti.
Sui social e per la strada, chiunque dica: “Restiamo umani”, “Apriamo i porti”, “Salviamoli” riceve insulti al grido di: “Portateli a casa tua”.
Per riflettere su questo fatto, tanto diffuso e problematico da rendere necessario più di un pensiero, occorrerebbe incominciare ad impostare meglio la questione.
Come si direbbe in questo tempo: “Di che cosa stiamo parlando?”.
Del disagio accumulatosi per anni dei cittadini costretti a subire politiche di accoglienza basate sugli interessi di potere e di denaro anziché centrate sui bisogni delle persone, oggi esplose al grido di “E’ finita la pacchia” e “Prima gli italiani” o delle morti in mare?
Stiamo parlando della necessità di organizzare il fenomeno migrazione al fine di costruire una buona e giusta integrazione o del fastidio che ci danno persone nere e povere che bussano alla nostra porta?
La questione è “occorre aiutarli a casa loro” oppure “ci sono persone di serie A e persone di serie B che meritano meno delle altre di essere salvate se in pericolo di morte e, sostanzialmente, di vivere?
È importante capire quale è il problema perché ci permetterebbe di comunicare cosa pensa ognuno di noi di ciò che sta SOTTO la drammatica vicenda che stiamo vivendo.
Sì, perché non tutti gli abitanti dei luoghi più esposti e più invasi la pensano allo stesso modo. Non tutti gli italiani, “penalizzati” da disaccordi europei, hanno la stessa opinione.
Non tutte le persone che hanno bisogni economici e sociali ritengono che prima degli africani c’è qualcun altro da aiutare.
Come dire, siamo TUTTI nella stessa barca (e la metafora grida vendetta), ma non tutti gridiamo “E’ finita la pacchia” o “Prima gli italiani”.
Perché?
Forse perché dipende dal concetto, che ognuno di noi ha, di umanità.
C’è chi pensa che esistano uomini e uomini e che, a seconda del colore della pelle o della provenienza, o dello stato di benessere economico, o della religione, o del genere a questo punto, si valga di più o si valga di meno.
E c’è chi non pensa questo.
C’è chi pensa che per potere ottenere una migliore politica organizzativa europea a proposito di accoglienza, valga la pena gridare, picchiare il pugno sul tavolo, irrigidire le posizioni, chiudere i porti e non importa se ci sono persone che muoiono perché ne vale la pena.
E chi non lo pensa.
Dire a chi esprime un’opinione contraria alla chiusura dei porti “Prendili tu a casa tua” significa, io credo, essere dell’opinione che i migranti NON devono venire in Italia e NON devono essere accolti.
A prescindere.
Perché questo?
Perché non si dice la stessa cosa di chi migra, ma è cinese o svizzero?
Forse perché non è nero e non è povero?
Allora, danno fastidio le persone che chiedono aiuto senza darti niente in cambio (in termini economici), non sono tollerate le persone che appaiono inferiori ancora oggi, per il colore della pelle e per i tratti somatici e non si vuole vicino a sé, come da sempre, chi non ha soldi e ne chiede.
Diciamoci questo.
Poniamo la questione apertamente in questi termini.
Perché chi crede che queste persone siano uguali a noi in termini di diritti, considerandole il prossimo tuo come sé stesso si sta esprimendo con gentilezza e con pudore, mentre chi accetta che muoiano come se non fossero uomini, donne e bambini al pari delle proprie sorelle, dei propri genitori e dei propri figli gridano e insultano?
Forse, è sempre stato così?
Che chi, evidentemente, esprime pensieri negativi e ingiusti, ha bisogno di gridare?
Forse, così come considerano loro, i migranti, esseri inferiori, pensano che lo siano anche le persone che non hanno la loro stessa opinione?
Voglio esprimere il mio: NO, GRAZIE.
Io NON voglio che ci siano morti per convincere l’Europa, io NON credo che valgano meno dei nostri parenti, io NON penso che ci debbano essere frontiere che uccidono e NON ritengo che qualcuno possa avere il diritto di non soccorrere.
No, grazie.
Senza pensare che l’opinione contraria abbia diritto di essere taciuta o soffocata.
Voglio capire, ascoltare, ma mettendo alla base alcuni principi irrinunciabili.
 
Salvare chi è in pericolo.
Permettere a tutti di cambiare in meglio la propria vita.
Credere che tutti gli uomini e le donne di questa terra abbiano gli stessi diritti.
Ritenere che il valore delle persone non dipenda da quanto denaro possiedono.
 
Confrontiamoci su questo.

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Rondini

Sono le rondini la prima cosa che ho pensato potesse rappresentare mio papà, che non c’era più.
Fino a quel momento era morto e basta, piangevo e basta, ero inconsolabile e basta.
Poi, un giorno, uscendo di casa, due rondinelle mi hanno sfiorato planando su di me e volando via.
Ecco, “Forse sei tu” mi sono detta e, per la prima volta, ti ho sentito ancora vivo.
È il locus, dicono gli esperti, il luogo dove devi mettere chi scompare, per potere elaborare la sua mancanza.
Non è più fuori, a poco a poco deve diventare dentro, ma un fuori è necessario, è la tomba sulla quale piangere, ma anche la vita che si reincarna, per continuare.
Qualche giorno dopo, ho visto mio papà in un bimbo che si chiamava come lui e che, con il suo sguardo intenso, mi osservava.
Ma non vediamo chi non c’è più ovunque, in qualsiasi luogo, indistintamente. Quella persona lì è nei luoghi cari a quella persona lì, ognuno ha i suoi luoghi cari e, anche in vita, è in quei luoghi cari.
Mio papà era (ed è) nella natura, nelle montagne nelle quali lo vedono i miei fratelli, nell’oceano nel quale lo vedo io.
È negli occhi dei bambini, quando sono seri o quando ridono e sembrano grandi. È nelle loro espressioni divertite e curiose, quando si scherza, come faceva sempre lui.
Questa è la consolazione.
C’è angoscia nel rimanere soli, certo restiamo tra coetanei, ma non sempre basta.
Un pezzo profondo deve essere ripescato, deve rimanere, non possiamo fare a meno di lui, di questa radice che affonda, nella Terra, e che non si vede, non si vede più, ma se non c’è caschiamo.
Questa Radice oggi non la vedo solo nel suo significato di Storia, la vedo anche nel suo Significato di sostegno, di linfa, di collegamento con il profondo.
Io sono i miei rami, la mia corteccia, le mie foglie, ma sono anche la mia Radice e non sono solo io ad esserlo.
La mia radice è tutto ciò da cui provengo e verso dove io stessa andrò.
Noi siamo alberi collettivi, piantati nella stessa Terra, che guardano lo stesso Cielo.
È solo questo pensiero che mi toglie la paura, insopportabile, di rimanere sola, nel vuoto, mentre vi guardo partire.

Voi, rondini, che anche quando non vi vedo più so che ad ogni primavera ritornerete da me.

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La forma dell’acqua

Non bisogna capire questo film, bisogna crederci.
Bisogna credere che i cattivi perdano, che gli innamorati non si debbano dividere, che gli amici ti possano proteggere e sostenere nelle imprese impossibili e che la sorte del mondo sia nelle mani dei più umili.
Bisogna credere che un bagno si possa riempire d’acqua come se fosse una piscina, bisogna credere ai miracoli, bisogna credere alle rivoluzioni, bisogna credere alle favole.
Cercare di capirlo significa entrare nei mille simboli presenti che lo rendono molto più ermetico di quanto possa sembrare, camuffato com’è di immagini che lo fanno assomigliare ad un cartone animato e, invece, è la Cabala.
Le uova, il sangue, le dita di una mano, la sveglia, il telefono, il corridoio, i gatti, il sale, le cicatrici, la gelatina verde, la danza, le torte, la notte, il canale, l’acqua.
Alla fine lo analizzi, ma mentre sei dentro nuoti e basta, sommerso dalle immagini e dalla straordinaria recitazione di Sally Hawkins, che, leggiadra, attraversa la trama come se fosse un sogno.
La forma dell’acqua è un viaggio attraverso il sentimento, è un’opera imperfetta nella quale tuffarsi per farsi portare via, verso il mare, è un film sulla libertà di essere e di amare chi vogliamo.
La forma dell’acqua è un film proprio sulla possibilità di trasformare e di trasformarsi, a patto che si permetta alle nostre cicatrici di venire curate (e guarite) da chi ci ama.

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Vergogna e paura

Leggo sui media di femminicidi tutti i giorni, uno perché se ne parla molto e due perché sono frequenti, purtroppo.
Leggo, mi indigno, provo paura, rabbia, vergogna per l’essere umano, maschile.
Leggo, provo dispiacere, quasi incredulità perché ciò che avviene possa avvenire.
Poi, un giorno qualunque di una settimana qualunque, nel centro storico di una bella città toscana sul mare, mi imbatto nella violenza, in quella violenza.
Aspetto fuori da una gelateria mio marito che si compra un cono, immersa nella mia normalità, fatta anche di dissapori proprio perché normale, quando la scena che fino a quel momento era in secondo piano rispetto ai miei pensieri diventa improvvisamente quella di un film, a grande schermo.
Un uomo, di spalle rispetto a me, parla sottovoce tenendosi molto vicino al volto di quella che potrebbe essere la sua fidanzata/moglie/compagna.
Lei, che io vedo e sento molto bene, grida di lasciarla in pace. Una volta, due volte, dieci volte.
Più lei grida e indietreggia, più lui le si fa sotto, continuando a parlare sottovoce, senza lasciarla.
La strattona.
La spinge.
Lei tenta di divincolarsi, ma non riesce.
Lui è silenzioso, ma feroce.
Lei tenta di scappare, lui la ferma.
Io sono terrorizzata, ma non faccio in tempo ad avvicinarmi perché, in meno di un minuto si svolge tutto.
L’epilogo è drammatico, sottilmente drammatico e mi sconvolge.
Lui le sequestra la borsa e la borsetta e se ne va.
Lei è attonita, deprivata, derubata, sequestrata a sua volta, senza più effetti personali, né documenti.
Lo segue, rimanendo sul lato opposto della strada.
Camminano, ma, ad un certo punto, lei decide di darsela a gambe lo stesso.
E inizia a correre, corre, corre, sempre più veloce.
Lui svolta un angolo, pieno di sé e del bottino sotto il braccio, convinto di averla in pugno.
Lei sparisce all’orizzonte, spero per sempre.

Sono passati tre giorni e stanotte ho fatto un sogno bruttissimo.
Mi inseguivano, mi picchiavano, io scappavo e picchiavo a mia volta.
I soggetti erano mostri. Come quello dell’altro giorno.

La violenza non si misura a lividi e ferite sulla pelle, la violenza è tanto maggiore quanto violenta l’anima, quando ti toglie la libertà, quando si insinua talmente a fondo da tornare a visitarti di notte, anche se ne sei solo testimone.

Quella violenza è da raccontare, per combatterla, ma, soprattutto, per rendere pubblico ciò che, apparentemente, è affare privato e, peggio ancora, affare normale.
 
Coraggio e solidarietà a tutte le persone che  stanno subendola e un augurio che ce la facciano a dirlo a qualcuno, primo passo per trovare o ritrovare la libertà.

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Le due donne

Due simpatiche donne over sixty parlano amichevolmente al tavolo del bar sulla spiaggia.
Lido di Venezia, ventisei  gradi, piacevolissimo pomeriggio di una perfetta domenica di giugno.
Un venticello leggero accarezza le confidenze tra le coetanee.
Argomento: la tecnologia.
Entrambe la usano, parlano di smartphone, di tablet e di connessione, dimostrando di avere risposto al richiamo dei nuovi mezzi, ma non fanno parte di questo mondo, si sente, lo usano e basta.
Ci provano, diciamo.
Una di loro ha appena “fatto funzionare Whatsapp” e ne decanta con soddisfazione i risultati.
“Pensa, mio nipote è in Cile e ieri ci siamo parlati tutta la sera!”
L’amica (senza whatsapp) le chiede se “hanno usato le parole o la scrittura”.
Lei risponde che suo nipote “usa anche la voce”, mentre lei, che non è capace, solo “le parole scritte”.
“Ma, non è piccolo lo smartphone?” le chiede, allora, l’altra.
“NOO, guarda come si fa!”
“Davvero, hai ragione, è abbastanza grande… non fugge via!”
Meravigliose.
Il breve dialogo mi porta in un posto lontano, quando c’erano altri oggetti e altre parole.
Mi porta nel passato e il passato è seduto accanto a me.
Le cose nuove hanno corso più degli anni sui quali viaggiavano.
Chi ne ha sessanta ha visto il mondo trasformarsi mentre cresceva e il ponte che collega i propri genitori, spesso ancora vivi, ai propri figli si è fatto talmente lungo che non si vede più il punto di partenza.
C’è poco da avere nostalgia.
Parlarsi da un capo all’altro del mondo con facilità e quasi gratuitamente è fantastico.
Trovare informazioni velocemente da casa, anche.
Per chi ama scrivere, è un’epoca d’oro, di condivisione allargata e di opportunità.
L’impressione che ho, però, è quella di una navigazione a vista, e sempre in mare aperto.
La rotta mi sfugge, il capitano non lo vedo.
Ognuno ha la sua barca, molti la condividono con centinaia di persone e non hanno acqua, né viveri.
Il traffico è intenso.
Qui, al tavolo del bar, ascolto le due donne e le vedo a riva, che guardano l’orizzonte in cerca di battelli.
Forse, sono anch’io sulla terra ferma, ad aspettare di partire, forse esco a pesca tutte le notti e, poi, ritorno a casa.
Mi piace ancora guardare le cartine geografiche e spedisco cartoline.
Instagram e Twitter mi divertono, ma non voglio pubblicare mie foto o foto di chi mi sta vicino.
Non sono una nativa digitale e me ne vanto.
La mia infanzia è in bianco e nero e la considero una cosa preziosa, perché era bella e non c’è più.
Sono affezionata a tutto ciò che è stato e ricordarlo mi emoziona.
So da dove sono partita e cosa mi piace del viaggio.
Nonostante ciò, spesso perdo la strada ed è per questo che penso a quanto sia importante avere la mappa con sé.
E la voce delle mie vicine, in questo fresco pomeriggio di sole, è un punto che, con il pennarello, segno sulla mia.

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Bad Teacher

Il film americano del 2011, dal titolo “Bad Teacher” (Una cattiva maestra), con Cameron Diaz e Justin Timberlake, è uno degli esempi di rappresentazione artistica più adeguati a indicare le diversità culturali tra gli Stati Uniti d’America e l’Italia.
La pellicola tratta di un’insegnante di Scuola Media (Secondaria di Primo Grado non si può sentire) il cui personaggio è disegnato nei minimi particolari perché sia il massimo esempio di negatività che un riferimento educativo possa essere.
Si droga, beve, mente, imbroglia, corrompe, dorme in classe, mortifica gli studenti, si prostituisce e antepone i personali interessi a quelli dei suoi allievi.
Se si aggiunge che i personali interessi corrispondono a rifarsi il seno per conquistare, senza amore, un ricco collega, il quadro è completo.
L’esagerazione del dipinto, comprese le battute e le scene esplicite a sfondo sessuale, volgerebbe a fare ridere, ma non si ride.
È questo il punto: tutto ciò che è pensato per essere comico, a noi risulta grottesco e fuori luogo.
Non solo perché tocca il tabù dell’educazione dei più piccoli (coinvolti scenograficamente e realmente in questo volgare racconto), anche perché infrange, e senza appelli, una dopo l’altra, tutte le regole della buona vita (tranne che nel finale in cui, miracolosamente, per potere chiudere, Cameron Diaz ritorna ad essere normale).
Ciò che dovrebbe divertire, invece, urta e infastidisce.
Tra noi e loro, in sostanza, di diverso, c’è la sensibilità.
La sensibilità, da vocabolario, è la “particolare attitudine a risentire gli effetti, anche più insignificanti, di una condizione affettiva o emotiva”, oppure, ancora, è “l’intensità e l’acutezza con cui un soggetto intuisce col pensiero qualcosa di esterno da lui” o, anche, è “la disposizione di condividere un’emozione provata da soggetti altri da sé”.
La sensibilità, in altre parole, è la maturità.
Cognitiva ed emotiva.
E non la si acquisisce studiando, s’impara attraverso l’esempio, l’esperienza e la riflessione.
Ed è proprio in questo che siamo diversi.
Secoli e secoli di esperienza personale, sociale, artistica e, non da ultimo, politica, ci rendono maggiormente sensibili e, quindi, più difficili da accontentare. Più capaci di sentire cosa c’è dietro alle cose.
Ovviamente, la tendenza alla superficialità o all’approfondimento, esistono da loro come da noi e appartengono anche alla condizione personale, non si può generalizzare, ma, nel cinema ci sono, come in questo caso, esempi chiari in cui non-ridere-per-le-stesse- cose rende l’idea.
Il tipo di comicità dipende dallo sfondo culturale nelle quali le figure individuali vivono e rendersi conto degli sfondi può aiutarci a comprendere meglio noi stessi e gli altri.
In quanto, ognuno, piccolo elemento di un sistema complesso.
E aiutandoci a spostare l’accento da quanto-siamo-diversi a in-cosa-siamo- diversi, ci permetterebbe anche di sentirci un po’ meno protagonisti e un po’ di più parte di un universo più grande di noi.

Per potere poi, perché no, riderci sopra insieme.

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Non ci resta che piangere

Ovvio, ovvio che non esiste sparare ad un’altra persona, magari alle spalle, nemmeno se sei arrabbiato o spaventato perché qualcuno è entrato in casa tua per rubare.
Ovvio.
Ovvio che non esiste dire che non dispiace la morte di un uomo e che chi ha ucciso ha fatto bene.
Ovvio.
Ovvio che non ci si difende da sé come accadeva mille e più anni fa.
Ovvio.
Tutti lo sanno, anche chi si ostina a dichiarare il contrario.
E tutti sanno che chi si fa fotografare accanto al signor Mario per fare campagna politica è una persona furba.
Ma io non riesco ad accettare la diatriba che si innesta questa vicenda.
Non riesco ad accettare che la questione diventi chi ha maggior torto, quando, di fronte ad una morte, non ci sono graduatorie che tengano.
Una morte è una morte, un furto un furto.
Ma perché, perché ci scateniamo gli uni contro gli altri e non ammettiamo, invece, che siamo tutti coinvolti in questa scena in cui non ci sono vincitori, ma soltanto perdenti, poveracci e perdenti?
Dovremmo tacere, e pregare, per chi non c’è più e per chi ha perso l’anima.
Dovremmo stare zitti e vergognarci di quanto è successo e di quanto sta succedendo, nei fatti e nelle parole.
Dovremmo mortificarci, non discutere.
Abbracciarci, non litigare.
Dovremmo confessare di avere oltrepassato i limiti, chiedere perdono a noi stessi, prima ancora che agli altri.
Quale è la via per ritornare in sé?
Per ritrovare le ragioni e la dignità?
Parlare? Parlarsi?
Certamente fermarsi. A riflettere, per cercare di capire cosa sta accadendo.
Non è in gioco il concetto di giustizia, ma, più profondamente, la questione della vita e della morte.
Ed è su questi temi che occorre discutere confrontarsi, non sulla legittima difesa.
Riprendere il filo, ritrovare il bandolo.
Altrimenti, dopo avere eliminato il ladro e condannato l’assassino, non ci resterà altro che piangere.

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A casa

A casa, apparentemente senza stimoli, né cose da scrivere.
Eppure, il mondo gira dentro, anche se sei ferma.
Desiderio di cose nuove, come la primavera, che arriva sempre, incredibilmente pronta.
La nostalgia delle cose passate si stempera un po’ lasciando spazio al respiro.
Il mare è lontano, ma, come il mondo, si muove dentro, anche lui.
È nella testa, con la sua immagine chiara, provvista di audio e di odori.
L’aria sulla faccia, le voci distanti e leggere, nel naso la Liguria, che arriva improvvisa appena scendi dalla macchina.
Le cose ci sono anche se non le vedi, ma è la testa a farle arrivare.
Lodiamo sempre il cuore, lo incoroniamo re della nostra anima, ma senza la testa non siamo niente.
È una scoperta di questo tempo, forse mi unisce a ciò che credevo fosse unico e, invece, come tutto, non è niente da solo.
Siamo mille cose che non sappiamo e una cosa sola che è l’adesso.
E tutto il resto, come diceva Ruggeri, è un’ipotesi.

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Bicitaxi

Il bicitaxi, nelle città cubane, costa dai due ai dieci Cuc, ciascuno dei quali corrisponde ad un euro circa.
Ce ne sono a centinaia, anche perché costano, a loro, solo fatica ed energia fisica e, visto che un operaio guadagna dodici Cuc al mese, è un’occupazione richiesta.
Ieri sera, un turista trasportato ha improvvisamente chiesto di scendere da uno dei trabiccoli perché la strada era dissestata e l’uomo che lo guidava sembrava essere in difficoltà.
Ovviamente, costui si è opposto dicendo di stare tranquilli perché non c’erano problemi.
Niente da fare, il turista ha finito la corsa dichiarando: “Troppa fatica, hombre, rispetto, rispetto!” ed è sceso prima di raggiungere la meta, senza sapere che, così facendo, agiva esattamente al contrario.
Pedalare trasportando il peso dei clienti, per chi lo fa di mestiere, è un lavoro ed è questo che merita il rispetto.
Quante professioni si dedicano a noi ogni giorno senza che ci fermiamo a chiedere di scendere.
Sarebbe come chiedere di non lavare i piatti al ristorante o di smettere di portare via la spazzatura o ancora di terminare di pulire il pavimento in ospedale, in nome del rispetto.
La cultura è il filtro attraverso il quale vediamo le cose e attribuiamo loro un significato.
Allora, è proprio questo il livello che dovremmo praticare negli scambi e nelle conoscenze.
“Per te, cosa vuol dire ciò?”
“Cosa ne pensi di?”
“Così, credi vada bene o no?”
Eccetera.
Fare domande, sempre, invece di decidere noi cosa sta pensando l’altro.
Detto ciò, il nostro autista, che pedalando in salita, ci ha portato da un punto all’altro dell’Avana, era anche senza un braccio.
Alla fine, a fare più fatica per tutto il tragitto, siamo stati sicuramente noi.

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