Tema di maturità

Me lo ricordo bene il tema della mia maturità.
Si riferiva all’importanza dei “mezzi di comunicazione”.
Il titolo preciso non lo ricordo, ma so che l’ho scelto perché mi dava la possibilità di fare un lavoro ampio, libero.
Chi l’ha affrontato, più o meno, credo si ricordi del proprio esame.
Ognuno sa, a grandi linee, cosa è successo, ma, di sicuro, rammenta i particolari.
Per me è stata l’emozione enorme del giorno precedente e della mattina stessa e di come, prima di entrare, ho dovuto cercare una strategia per calmarmi perché altrimenti non ce l’avrei fatta.
Ricordo che ho guardato fuori dalla finestra della scuola e, dalla mia intensa e drammatica situazione, guardando il cielo, mi sono alzata su, su, fino a che  la mia postazione non è diventata piccola e stupida.
Sì, ricordo che ho visualizzato il mio andare in alto e, da lì, ho potuto vedere quanto era minuscolo ciò che mi stava succedendo.
Così mi sono rilassata e sono entrata.
Del fatto che i titoli fossero sconosciuti e a sorpresa ero contenta, oggi so che il fattore novità è necessario per potere creare. Si sapessero le tracce prima, non si produrrebbe nulla.
L’adrenalina del momento, fatta di desiderio di riuscire, emozione e un tempo definito nel quale stare, unita ai titoli improvvisi e nuovi scatena.
Anche se nel primo momento può sembrare ci sia il nulla, poi la scintilla scocca.
Stamattina, tra le diverse tracce, avrei scelto quella riguardante il voto alle donne di settant’anni fa.
Non per celebrarlo, oggi è una cosa naturale e questo bisogno non l’avrei sentito.
L’avrei scelto, anche questa volta, perché mi avrebbe permesso di ampliare, di sviluppare liberamente un pensiero, a partire dal voto alle donne.
Un pensiero su come eravamo, su come siamo, su come potremmo essere domani.
Un viaggio, con gli occhi di oggi, per comprendere cosa reggeva le regole di quel tempo e cosa è riuscito a farle cambiare.
Chi ha promosso quel cambiamento?
Chi l’ha goduto?
A cosa serve, ma, soprattutto, cosa significa?

Mi piacerebbe molto leggere gli scritti che, stamattina, sono usciti dalle penne (le penne!) degli studenti gobbi sui fogli (i fogli!).
So che qualcuno ha sofferto della fatica fisica di scrivere, di fare quella cosa che una volta si chiamava scrivere, con l’inchiostro, pur rinchiuso in una penna a sfera.
So di qualcuno che, dopo tre ore, non ce la faceva più, con i muscoli indolenziti come quando cammini per ore in montagna e, anche se ogni giorno quella cosa lì la fai, non la fai per così tanto tempo e senza fermarti.
Sì, lavorare ad un tema, scrivendo per sei ore, è un po’ come scalare una montagna che non hai mai affrontato, con lo zaino in spalla, sotto il sole.
Si vede la vetta, ma per raggiungerla devi sudare, passo dopo passo e non puoi smettere fino a quando non sarai arrivato.
Sai che verrai giudicato, ma quello che puoi fare è solo cercare di mettercela tutta per, poi, accettare quello che verrà.
Hai la mente che spazia in mille cose che potrebbero uscire, in mille possibilità, ma è evidente che occorre sceglierne alcune, solo alcune per, poi, cercare di organizzarle.
Devi rileggere, ripensare, rifare, rivedere.
Ci sono momenti in cui ti sembra che tutto sia sbagliato, altri in cui sai di potere farcela.
Sei libero, ma devi stare nel sentiero che ti è stato indicato.
Infine, sai di avere tanto tempo, ma, minuto dopo minuto, questo si accorcia ed è chiaro che ci sarà una scadenza che non sceglierai tu.

Ragazzi, come potrebbe chiamarsi tutto ciò, se non maturità?

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Imerovigli

Due fidanzati giovani e carichi di energia, in moto a Santorini.
Lui guida elegante, lei molto coinvolta.
Parcheggiano e camminano per le vie tortuose e luminose di Imerovigli.
Lui abbronzato e fiero, lei devastata da un herpes che non dà tregua.
Sotto il vestito leggero, messo in valigia con amore, si sparge una miriade di puntini rossi in disegni che partono dal collo e scendono verso le magre gambe rosse.
Lui parla poco, è impegnato nella visita.
Lei, ogni tanto gli chiede un bacio, è evidente che non è concentrata sul borgo.
Non stanno insieme da molto, lo si capisce dal fatto che, nonostante l’herpes, lei non fa il minimo accenno alla sofferenza, evidente a me, invece, che, a differenza del ragazzo, la guardo.
Verrà il tempo in cui griderà vendetta, gli confesserà il disagio e il ricordo si trasformerà: non più baci e tramonto e meravigliosa Grecia, ma vaffanculo tu che non te ne rendevi neanche conto.
In malora te e le foto sotto il sole, sono stata così male.

Lui non ricorderà né le foto, né il paesino, né le vacanze.
Ma non è lui il regista di questo classico, non è lui ad aver scritto questa commedia.
Lui non si è nemmeno reso conto.
A definire la trama è la ragazza che, per amore, o così le sembra, sceglie di subire, senza sapere che, se parlasse, forse lui le coprirebbe le spalle con un telo e la porterebbe all’ombra per baciarla lievemente.

Alla fine, questo bisogna insegnare alle giovani donne, alle bambine:
se si vuole bene al sé, si merita l’amore dell’altro.

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La ciambella blu

Cinque bambini corrono verso il mare.
Sono zingari.
Il più grande avrà nove, dieci anni, poi, a seguire, gli altri quattro, fino al più piccolo che, nudo, cerca di stare al passo.
Si divertono, sono un gruppo.
Nella pineta dietro di noi, il pick up e l’ammasso di roba per vivere, con il papà sdraiato e la mamma accanto che chiacchiera con lui.
Il penultimo ha indosso un costume rotto, tenuto insieme da un nodo.
Si buttano nell’acqua, i più grandi, gli altri a poco a poco, rabbrividendo e trattenendo il fiato tanto da fare uscire le ossa dal magro costato.
Sulla spiaggia, lentamente, avanza una comitiva di tedeschi, cinque o sei adulti, e due bambine.
Le bambine, bionde, fanno rotolare una ciambella blu, enorme, che corre spinta dal vento.
Il salvagente sfugge alle due e rotola, rotola, prima timidamente, poi sempre più veloce, fino all’acqua.
Lì, si sdraia, soddisfatto e, a poco a poco, si allontana.
I tedeschi corrono, una di loro si spoglia, neanche troppo velocemente, e si butta in acqua.
La lentezza dell’operazione, in rapporto alla velocità del vento che soffia la ciambella al largo, è evidente.
Quando la donna lascia la riva, la ciambella è un puntino blu tra i flutti.
I cinque zingari, che hanno seguito tutta l’operazione urlando e sbracciandosi, si rassegnano delusi, mentre il resto del gruppo non si muove.
Le due bambine sono mute e condividono lo sconforto con i nomadi coetanei.
Ma, quando sembra che la scena sia conclusa, dal largo arriva un gommone a motore, lanciato, che raggiunge la riva.
Sul gommone, un bel giovane con barba e occhiali a specchio e vicino a lui la ciambella.
Cavolo, l’ha recuperata.
I tedeschi guardano senza parlare, ma, soprattutto, senza ringraziare e, dopo qualche attimo di spaesamento, il giovane getta il salvagente a riva, si gira e se ne va.
Così fanno i tedeschi, e si capisce che ordinano alle bambine di fare altrettanto.
Forse, le stanno punendo, forse la ciambella ha finito di essere loro quando i cinque bambini scuri hanno incominciato a farle festa.
La prendono, si occupano di lei, cercano di consegnarla alla grande famiglia bionda, ma si accorgono che a loro non interessa più perché, senza rispondere, si allontanano.
Evviva, è tutta loro.
Diventa un gran giocare e se la godono fino a quando non si buca e, come pelle morta, rimane tra le cassette e le coperte del loro accampamento.
Che storia, la ciambella, stamattina era quieta, addormentata all’emporio e guarda dov’è finita.
Ma, soprattutto, chi l’avrebbe detto.
Il destino, a volte, è dato dal vento, a volte lo decide l’uomo.
Ma sempre, sempre, scorre veloce e tutto continua a cambiare.
C’era una volta una ciambella blu che si svegliò tutta sgonfia e sola in mezzo ad una pineta dopo un violento temporale che aveva fatto scappare tutti al riparo.
E un bimbo la raccolse per poterla aggiustare.

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La signora in barella

Ieri, usciva da una Casa di Riposo una signora in barella.
Probabilmente stavano accompagnandola a fare una visita, perché non erano di fretta e sorridevano tutti.
La signora era molto anziana, sicuramente non autosufficiente e, almeno apparentemente, come si dice in termini scientifici, conciata.
Era sdraiata, ad occhi chiusi e pallida.
Ad un certo punto, appena fuori dall’edificio, dirigendosi verso l’autoambulanza, la donna ha aperto gli occhi e ha esclamato con energia: “Se sent l’aria!”. Si sente l’aria.
Come dire: possiamo essere nel nostro guscio e non stare nemmeno molto bene, ma l’esterno, l’aria (specie se aperta), qualcosa, insomma, che ci raggiunge e ci tocca, può colpirci e rianimarci.
Qualcosa che ci solleva dal torpore in cui, per necessità, per obbligo o per scelta, ci siamo ritrovati.
Un elemento esterno, che accarezzandoci la pelle, ci fa reagire, ci fa esprimere, ci fa, cioè, “manifestare i nostri sentimenti, o le nostre idee”.
Forse, vuol dire che si può non perdere la speranza che, anche in condizioni in cui si sembra assenti, possiamo sentire?
Significa che, anche quando tutto potrebbe essere scollegato, invece, una possibilità di connessione c’è?
Sì.
Secondo me, sì.
E’ il non verbale che vince.
Le parole che impariamo servono a potere dire prima di tutto cosa vediamo e cosa ascoltiamo e, poi, a poco a poco, “cosa ci serve” e “di cosa abbiamo bisogno”.
Gradualmente, costruiamo la capacità di usarle anche per dichiarare, poi, cosa pensiamo delle cose, del mondo e di noi e, addirittura, infine, possiamo, attraverso di esse, descrivere cosa c’è dentro di noi o dietro alle cose.
Impariamo ad usarle per dire cosa immaginiamo, anche se non c’é.
Diventiamo capaci di utilizzarle per raccontare sentimenti, stati d’animo, concetti astratti, teorie complicate.
Tutto ciò è straordinario, ma il linguaggio, senza la realtà concreta, non esisterebbe.
Senza l’esperienza vitale del contatto con la realtà, del nostro venire al mondo, non ci sarebbe la nostra possibilità di dare a tutto un nome.
Allora, quando, per decadimento o per difetto, questa capacità di parlare non c’è, o non c’è più, non è vero che non c’è niente, o che non c’è più niente.
I disabili gravi, i sordi che non hanno imparato ad usare la voce, gli anziani dementi possono non parlare, ma ciò non significa che non sentano o che non vengano toccati dalla realtà intorno a loro.
Il significato delle parole può non essere acquisito o può essere andato perduto, ma ciò non significa che non si possa ricevere ciò che gli altri, o le cose, ci dicono.
“Capire” e “comprendere” significano, certo, “intendere con l’intelletto”, ma anche “contenere”, “accogliere in sé”, “abbracciare”, “racchiudere”.
L’aria che accarezza la pelle, la luce che illumina, la mano che tocca, l’acqua che disseta, il fuoco che scalda, il tè che riscalda, la piuma che solletica, la crema al cioccolato che piace, la voce che incoraggia, che loda o che consola, la musica che emoziona, non hanno bisogno di parole per essere compresi.
Questo ci deve, quindi, incoraggiare a comunicare sempre, anche con chi crediamo non capisca o non capisca più perché non capirà le nostre parole, ma la realtà e i sentimenti che gli facciamo sentire sì.
Per qualcuno è necessario che altri organizzino la comunicazione, perché non è o non è più autonomo, ma ciò che conta è che ancora presente, che possiamo parlare con lui.
Fammi sentire che ci sei, che c’è il mondo, perché se ci sei e c’è il mondo, ci sono anche io.
E non importa se la risposta non è quella a cui eravamo abituati, quella che vorremmo, perché ce n’è sicuramente una, un’altra, che possiamo, a nostra volta, comprendere e che ci può rassicurare del fatto che, in quel momento lì, non siamo soli nemmeno noi.

 

16 aprile 2016

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L’amore ai tempi dei voucher

Stamattina ho passeggiato facendo il mio solito slalom, divertita, curiosa e attenta, tra i diversi personaggi che popolano il centro della mia città la domenica mattina quando c’è bel tempo.
Mamme vestite da festa con bambini in tinta, fidanzati che fanno la seconda colazione insieme, signore in libera uscita, coppie anziane innamorate un giorno su sette.
Tutti felici.
Chi esce la domenica mattina quando c’è il sole e passeggia per la città è felice, altrimenti non sarebbe lì.
Tra le chiacchiere che ascoltavo, una mi ha divertito molto.
Una ragazza dice ad un ragazzo, mentre camminano veloci distinguendosi un po’ dagli altri: “Nooo, mica è un contratto che si rinnova… quello è un voucher e (lì sono morta dal ridere) i voucher sono bastardissimi!”.
I voucher bastardissimi è troppo simpatico.
Allora, andiamo per ordine: il contratto a tempo indeterminato non veniva nemmeno nominato.
Al suo posto, sul podio, c’era il “contratto che viene rinnovato” (ovviamente a tempo determinato) e, in alternativa malefica, il VOUCHER.
Il bastardissimo voucher.
La ragazza ha, poi, aggiunto: “Quello, giorno dopo giorno, non sai se arriva!”.
Ecco, a parte la simpatia, questo è il vissuto di cui dovremmo accorgerci, noi adulti, che hanno i giovani del lavoro.
Il posto fisso è un fossile, reperto archeologico di cui la maggior parte dei ragazzi ignora l’esistenza, anche letteraria.
Il contratto a tempo determinato, che si può o no rinnovare, la norma.
Il livello di precarietà che viene sentito e che mette agitazione, è quello giornaliero, non più mensile, o annuale.
Sotto quel livello, rimane solo l’attesa del proprio destino ora dopo ora, alla “Miglio verde” per intenderci.
Che ripercussioni può avere sulle nostre anime, questo pensiero relativo al lavoro?
Nei nativi digitali, che potremmo definire anche nativi precari, cosa comporterà questo rapporto temporale sugli altri ambiti della vita?
L’amore dura ancora per sempre, almeno nei pensieri e nelle fantasie dei giovani o è, al massimo, a tempo determinato?
L’amicizia appare ancora a prova di vita o dipende dalla carica del cellulare?
Dopo la scuola, c’è il futuro o la continuazione della vita che, giorno dopo giorno, i genitori pagano?
Io sarò vecchia quando queste persone saranno gli adulti che, secondo la tradizione, dovrebbero sostenere i figli e i genitori anziani.
Ma anche questo è un pensiero antico.
Forse la nostra aspettativa di vita passerà dagli attuali ottantuno/ottantaquattro anni alla mattina del giorno dopo, forse saremo in centinaia a contenderci i pochi uomini e le poche donne rimasti in forza.
Forse, la tecnologia ci avrà regalato modalità di autonomia oggi ancora sconosciute.
Forse, sopravvivranno i ricchi, forse chi saprà costruire buone relazioni.
Di sicuro, io sarò lì ancora ad ascoltare ancora questa straordinaria specie umana, che nel corso dei secoli è riuscita, sempre, contrariamente ad ogni previsione, a stupire qualsiasi aspettativa, nel bene e nel male.
E’ il fattore sorpresa che potremmo rivalutare: al tempo del posto fisso, gli amori sembravano eterni e invece erano solo da tenere nel segreto della propria casa.
Oggi, ai tempi dei voucher, possiamo sperare che l’amore lo si possa inventare ogni giorno e che, ogni giorno, senza dare niente per scontato, ce lo si debba guadagnare.
Bastardo sì, ma molto, molto responsabilizzante.

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Milano Bicocca Village

5 marzo 2016, Sabato sera.
Mi pare di ricordare che qualche tempo fa per il cinema si parlasse di rischio di fallimento e che la sua frequentazione fosse diminuita al punto da fare ricordare con nostalgia code e spintoni per entrare.
Il pericolo è scampato con la multisala.
Sabato sera, al Bicocca Village di Milano c’era talmente tanta gente da fare ricordare con nostalgia la platea fredda e deserta dei cinema in centro città all’inizio degli anni 2000.
Tutti giovani. Puzza di pop corn. Bagni sporchi come quelli degli autogrill a Ferragosto. Pavimenti appiccicosi da travasi di Coca Cola a tradimento. Serpentoni parlanti e senza fine che entrano sui titoli di testa e fanno il trenino tra le file. Trailers violenti a volume a palla che ti fanno dimenticare il titolo che hai scelto.
Caldo uterino.
Poltrone talmente comode che se arrivi da una cena ti addormenti prima dell’inizio del film.
Promessa di non ritornarvi mai più durante l’weekend.
Ansia della coda per i biglietti con il conto alla rovescia dei posti sullo schermo che ti fa venire la paura che sia l’ultimo giorno di vita sulla Terra.
Dopo avere abbandonato la nave che colava a picco degli ultimi undici posti di Revenant, abbiamo scelto il rilassato bus delle duecento trentatré poltrone libere di Tiramisù e siamo entrati nel tunnel.
Marito addormentato sulla sinistra e nipote occhialuta sulla destra.
Inizio del film d’esordio di Fabio De Luigi, glorioso protagonista del capolavoro televisivo incompreso che è stato Love Bug’s.
Recensione:

“Fin dal principio, capisci che il faccione che appare in primo piano sullo schermo non ti farà ridere.
Realizzi subito, istintivamente, che questa volta no, Fabio De Luigi, non ti farà ridere.
La scena è lunga, inutile, difficile da capire.
E, soprattutto, parla subito del tiramisù, introducendo addirittura la sua ricetta.
Come dire, ti svelo subito tutto quello che avrei potuto farti intuire, restando nel mondo del simbolico.
Ti dico subito che il tiramisù a cui alludo è proprio il tiramisù.
Anche la faccia del cuoco che cucina non è simpatica e il film inizia male.
Vittoria Puccini è sì lieve e deliziosa come nelle anticipazioni, ma c’entra con Fabio De Luigi come Olivia di Braccio di Ferro con Rhett Butler di Via col Vento.
Due mondi, due corpi, due anime separate dal film.
Gli amici, i parenti annessi, tutti gli altri, ognuno per conto proprio con la propria bozza di personaggio a cui, negli appunti dello sceneggiatore, fanno riferimento.
Le location, italiane, sconosciute agli italiani in platea.
Ogni scena è una gag a parte che, però, non si chiude come se si cambiasse canale tra una e l’altra.
Persino Pippo Franco non sembra fare parte del cast, ma di un’altra opera che interferisce per un errore di frequenza.
E lui, Fabio, è un eroe o un coglione?
Per lui, devi provare comprensione o sperare nel suo fallimento?
E, dopo avere rinunciato a ridere (a parte nella esilarante scena del defibrillatore) cosa ti deve fare pensare questo film?
Che diventare cinici e bastardi non conviene?
Che se ritrovi la rotta perduta puoi ritornare a vivere ricco e felice in riva al lago come se niente fosse accaduto?
Che se ti redimi anche gli spermatozoi accelerano la loro corsa?
Non so cosa ti fa pensare, ma so che “provaci ancora, Fabio”.
La tua corsa in bici, nuovo Forrest Gump de noantri, era noiosa come un vecchio documentario del terzo canale di una volta e la scena finale con il figliolo sul vasino orrenda come un film di Massimo Boldi.
Da capo.
Cancella, rifai da capo e vediamo cosa viene fuori.
Intanto, ti aspettiamo a casa, lontani dalla multisala maledetta, in attesa del prossimo tentativo.
Un’altra chance te la diamo perché sei tu”.

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Educarsi

Il padre di una studentessa morta nell’incidente stradale che ha coinvolto in Spagna un gruppo di giovani in Erasmus, ieri, mi ha colpito.
Intervistato, ha dichiarato che non incolpa l’autista che guidava il bus uscito di strada per il suo colpo di sonno. Ha detto che non lo incolpa e che che occorre capire perché è successo quel che è successo e comprendere, al di sopra di lui, di chi è la responsabilità.
Che uomo.
Un uomo che in uno dei massimi momenti di stress emotivo, usa la ragione.
Che passa dall’io al noi.
Che guarda la situazione nel suo complesso e non cade prigioniero del suo stesso stato.
Che non ne viene travolto.

Come può riuscire a farlo?
Non è sicuramente una capacità che esplode da un momento all’altro, improvvisamente.
È una competenza, credo, che ha radici profonde, nel passato, che nasce come frutto dell’intera vita.
E’ una competenza che è stata educata.

Come?
E’ difficile sintetizzare il processo che porta alla maturità, che sviluppa la ragionevolezza, ma ci provo.

Uno: l’esercizio della riflessione. Delle cose che accadono occorre parlare, a sé stessi e con gli altri.
Cosa è successo? Perché? Cosa ne penso? Cosa provo? Cosa pensi tu?
Due: l’esercizio dell’empatia.
Cosa prova l’altro? Cosa vedo nell’altro? Cosa penso stia pensando? Al suo posto cosa farei?
Tre: l’esercizio del pensare in termini universali.
Sapere generalizzare, sapere guardare il mondo. Parto dalla mia esperienza, ma la allargo, la metto in relazione con l’universo. E scopro che nell’universo, la mia esperienza esiste anche per altri, che il mio dolore, la mia gioia, sono eventi che colgono l’essere umano in generale, non solo me.
Raccolgo i dati che arrivano da fuori, li ascolto, li osservo. Guardo l’insieme, mi vedo dall’alto.
Quattro: l’esercizio dell’ascolto, appunto.
Sto zitto, mi metto in attenzione. Mi interesso dell’altro e di ciò che è intorno a me. Lo registro, lo faccio mio. Mi importa cosa mi si sta dicendo, non solo cosa penso io.
Cinque: l’esercizio dell’esame di coscienza (antico esercizio).
Cosa ho fatto? Cosa posso fare? Cosa potevo fare? Cosa è successo dopo le cose che ho fatto? Che responsabilità ho?
Potrei continuare.
Si tratta di azioni che, ad un bambino, ad un ragazzo, devono essere proposte, non arrivano da sole. Sono azioni da condividere, da proporre, da mostrare con l’esempio.
Allora, crescere può significare affrontare una per una le tante cose difficili che si parano davanti e non scansarle.
Può significare mettersi alla prova e superarla, con forza fisica e mentale, da esercitare, appunto.

Il papà che ho ascoltato in tivù è passato inosservato rispetto alle tante reazioni eclatanti che che vengono mostrate, ma invito ad andare a riascoltarlo.
Rincuora, consola, fa sperare nella possibilità di evolvere e di non soccombere anche di fronte alle tragedie, ma, in generale, in mezzo alle mille facce di una umanità perduta. In fondo, credere nella forza dell’educazione dà la speranza non solo di resistere alle difficoltà, ma anche di scoprire o ritrovare la rotta nella mappa della vita.
In un viaggio che non si può programmare, ma al quale possiamo dare un significato scelto da noi.

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Dall’io al noi nel micro e nel macro

Giovedì 10, venerdì 11 e sabato 12 marzo scorsi ho partecipato al Convegno organizzato da Animazione Sociale a Torino, dove ci siamo incontrati in ottocento intorno al tema “La Città del noi, per una politicità dei desideri nel lavoro sociale”.
Fermarsi a riflettere, ad ascoltare, ed incontrare altri intorno ad argomenti cari fa sentire nel mondo e fa sentire il mondo. Incapsulati ogni giorno nei nostri gironi, rischiamo di dimenticare i perché che sono alla base delle nostre scelte e, un po’, anche noi stessi, alla base di noi.
Mi ero iscritta senza scegliere il tema. Sarei andata comunque. Mi fido di Animazione Sociale, mi piace Torino, avevo molta voglia di un piccolo viaggio.
Il tema l’ho scoperto pian piano, ora dopo ora, e mi sono appassionata.
Dei due lavori in sottogruppo ho molto apprezzato il primo, in cui il metodo autobiografico è apparso come pratica tra le pratiche, dalle quali partire per il confronto.
Come passare “dall’io al noi” nel metodo autobiografico?
Sono emersi i seguenti ingredienti: l’ascolto paziente, l’approccio empatico, l’essere insieme in una occasione scelta, organizzata, intenzionale, insomma.
Scrivere una storia collettiva attraverso la storia di ciascuno.
A casa, proseguo la riflessione e mi viene in mente che questo “dall’io al noi” può essere applicato anche ad altre due categorie, oltre che alla città, ovviamente partendo proprio dal significato metaforico che il riferimento suggerisce.
Primo, lo posso applicare ad ogni microsistema, per esempio alla Casa di Riposo dove lavoro.
In quella Casa, come in ogni comunità, è molto, molto forte l’aspetto delle individualità. Ci vivono molte persone, ciascuna delle quali ha bisogni, motivazioni, pensieri, rappresentazioni, azioni, una storia.
E ciascuna persona è forte nel provare e nell’essere tutto ciò.
Se la mission di una comunità , però, è quella di vivere insieme, occorre per forza trovare la strada per scrivere una storia di tutti, una storia collettiva.
Per forza, se non si vuole creare un sistema malato, ovvero pieno di individualità che, implicitamente o esplicitamente, si scontrano ed incontrano in ogni momento, ma lo fanno solo a nome dell’io di ciascuno.
Stranamente, questo lavoro di scrittura, di definizione di una storia comune, a partire da quella di ciascuno, si coltiva molto poco.
Si scrivono progetti, regolamenti, carte di servizio, ma non proprio la storia, non proprio una fotografia di tutti. O, lo si fa senza consapevolezza. Senza intenzionalità.
Ecco che, allora, ci può venire incontro la narrazione autobiografica, che, condivisa, è proprio quella scrittura. La narrazione può avvenire attraverso la scrittura, ma anche la fotografia, l’arte visiva, la drammatizzazione, i viaggi e i loro diari, gli eventi e il loro racconto.
Ma, tutto, in un progetto, appunto, con intenzione.

Ecco, questo è il micro.
E, poi, c’é il macro.
Perché non applicare la teoria del “dall’io al noi” anche ad un macrosistema che più macro di così non si può e che si chiama mondo?
“Ho visto un posto che mi piace, si chiama mondo” canta Cesare Cremonini, la citazione non è colta, ma è appassionata.
E’ nel-mondo che viviamo e, mai come oggi, anziché alzare muri e difendersi con barriere, occorrerebbe pensarsi diversi da prima, ovvero insieme.
Lo stato sovrano non esiste più e, come dice Bauman, la società di oggi è liquida. Conviviamo già tra stranieri, e, forse, per andare avanti, oggi occorre uscire da questa categoria.
Abitiamo il mondo, lo abitiamo già, non siamo più divisi. Perché, allora, non costruire, a poco a poco, questa nuova storia?
La paura ci obbliga a difenderci e, spesso, è dettata dalla non conoscenza. Lo straniero è strano, prima di tutto. Allora, lavoriamo alla familiarità, che è fatta di incontri, chiacchiere, foto, eventi, scritture condivise. Affinché fra tanti anni si possa vivere in pace.
O meglio, affinché, fra tanti anni, si possa vivere ancora.

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