Le cose belle

Dobbiamo circondarci di cose belle, cercarle, desiderarle, volerle.
Dobbiamo abituare il pensiero a pensarle, l’occhio a vederle, il cuore a sentirle.
Non è così scontato riconoscerle, distinguerle, ma, soprattutto, sceglierle.
E’, invece, molto facile abituarsi al brutto, al mediocre, al tanto è lo stesso, fin da piccoli.
I bambini sono attratti dalle cose belle, ma, da soli, non ci arrivano. Sono gli adulti a poterle individuare per loro e a guidarli verso il positivo.
Ma, per farlo, occorre una montagna di fatica. Occorre fare, modificare, muovere, scartare, rinunciare, insistere, decidere. Occorre, in sostanza, assumersene la responsabilità, sentirlo come un dovere.
L’alternativa, il rimanere a guardare passivamente, l’accettare senza cambiare, è dietro l’angolo, sicuramente più comoda.
Cosa ce lo fa fare, allora, di fare questo sforzo, se non il non poterne fare a meno?
Deve diventare un automatismo, deve innescarsi un dispositivo che ci fa dire: “Si fa così, voglio così, faccio così”.
E’, come altre e innumerevoli cose, una questione educativa, fatta di azioni, prima condotte e guidate, poi autonome, interiorizzate, in coscienza.
Il risultato, però, è notevole.
Essere circondati da cose belle, fare cose belle, ricevere cose belle è portentoso.
Fa stare bene, cura, rivitalizza, rinnova, fa rinascere. Ogni giorno, ogni volta.
Pranzi, paesaggi, film, concerti, libri, tovaglie, quadri, canzoni, vestiti, parole, poesie, immagini, gesti, pensieri.
Tutte le risorse che abbiamo devono andare in quella direzione. Poche o tante che siano.
Investire ciò che si ha.
Guadagnare in salute, incassare in buonumore.
Come tutte le cose che vorremmo, mettiamo questa nei desideri e nelle speranze, ma, da oggi, poniamola, con un click, anche nel carrello delle volontà.

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L’altro

Mi concedo di parlare ancora di me, di sé, del dentro di noi.
La condizione soggettiva, come si sta, come ci si sente, è molto più importante di quel che si crede e, sicuramente, del “Tutto a posto?” che oggi si usa per chiedere come va l’altro.
“Ciao, tutto a posto?”.
E cosa vuoi rispondere?
“No, ci sono pezzi rotti di cui non trovo il ricambio”.
Oppure: “Ho scombinato il puzzle e non trovo più un tassello”.
O, ancora: “Mi è caduto a terra il barattolo e si sé sparso tutto intorno”.
O, anche: “Sto cercando di riordinare, ma non so da dove partire”.

Quando è “tutto a posto”?
Mai, salvo brevi istanti in cui fotografi una sensazione, che non ha niente a che fare con lo stato delle cose, ma con te stesso.
Non a caso, esiste il “come stai?”.
Come sei tu, cosa ti succede dentro, cosa provi. La differenza è questa.
Non un inventario delle cose che hai o che ti succedono, ma una ricognizione dell’interno.
“Come stai?”.
“Boh”.
“Forse bene”.
“Triste”.
“Cerco di avere speranze”.
“Gasato”.
“Stanco”.

Al di là dei termini, sarebbe così bello fossimo realmente interessati all’altro.
Ma non solo all’amico o a chi frequentiamo (anche se quante volte non lo chiediamo nemmeno a chi vediamo tutti i giorni al lavoro?).
Dico realmente interessati proprio all’altro, a chi incrociamo per strada.
Partire da come si sta, se succede di interagire, non da cosa capita.
Basta osservare e ascoltare.
La faccia.
La voce.
Le mani.
Lo sguardo.
Allora, l’altro è evidente che sia arrabbiato, infastidito, intenerito, impaurito, sollevato e così via.
Siamo un incrocio di stati d’animo, non di fatti.
Come vanno i fatti dipende da come stiamo, non dalle leggi oggettive alle quali ci appelliamo.
I princìpi servono in sede di giudizio, ma nelle relazioni vale la serie infinita di significati che diamo alle cose.

Sembra semplice.
Non lo è.
La maggior parte delle volte siamo sordi o ciechi o programmati a vedere e sentire quello che vogliamo.
Siamo pieni di noi, anziché vuoti e disponibili.

“Come stai?”.
“Boh”.
“Ho un po’ di cose da portare in discarica, qualcos’altro da aggiustare, sono occupata”.
“Ti serve una mano?”.
“Boh, magari sì”.

Aiutare a svuotare, a liberarsi, anziché accumulare roba addosso, gli uni sugli altri.
Forse, poi, non è tutto a posto, ma va meglio.
O no?

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La cattiva scuola

Com’è una scuola che nei primi giorni dell’anno, quando i bambini e i ragazzi sono emozionati, ma anche spaventati, non predispone la presenza di tutti gli insegnanti che servono e che li possano accogliere?

Cattiva.

Com’è una scuola che, pur sapendo, ogni anno, che l’anno dopo si ricomincia non organizza il quadro dei suoi dipendenti e, così, ogni volta, ogni volta, non è pronta?

Cattiva.

Com’è una scuola che nomina i dirigenti solo pochi giorni prima dell’inizio così che nessuno è preparato e, spesso, non conosce nemmeno dove è finito?

Cattiva.

Com’è una scuola che lascia soli alunni in condizione di grave disabilità perché non è riuscita a nominare gli insegnanti di sostegno?

Cattiva.

Com’è una scuola che obbliga insegnanti di sessant’anni a sedersi per terra con i bambini della prima infanzia, lasciando a casa giovani persone che non vedono l’ora di lavorare con loro?

Cattiva.

Com’è una scuola che mette in organico docenti senza esperienza o con poche ore di tirocinio alle spalle?

Cattiva.

Com’è una scuola che non ha soldi per il materiale, per gli strumenti e per la formazione?

Cattiva.

E, infine, com’è una scuola che pensa ancora che il suo orario finisca con il suono della campanella e non ingaggia gli insegnanti nella vita sociale ed educativa delle comunità, facendo riferimento solo alla buona volontà di qualcuno?

Cattiva.

Noi ci arrangiamo, ma almeno non chiamatela buona, perché ci fate proprio, ma proprio arrabbiare.

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Studenti

Sarà che è lunedì anche per me e non ho fatto tre mesi di vacanza, ma, stamattina, l’onda d’urto degli studenti che marciavano come bufali verso la scuola mi ha dato molto fastidio.
E diciamolo.
Le facce dei pochi adulti che boccheggiavano cercando di farsi largo tra la fiumana incolta erano sofferenti e scocciate.
I giovani spingono, urtano, travolgono, calpestano e, non da ultimo, sbadigliano a bocca spalancata come se non ci fosse un domani.
Probabilmente, presi uno a uno potrebbero riacquistare sembianze umane, ma così, tutti insieme, creano un’entità a parte da studiare antropologicamente.
Lo so, lo so, questo sentimento è una delle prove definitive che sono diventata grande, per usare un eufemismo.
Ma sono certa, non li sopporta nessuno.
La mente cerca di andare all’indietro per recuperare memoria del mio passato: eravamo così anche noi?
No, mi dico, no, dai, no.
Mi appiglio a cambiamenti sociologici e pedagogici che vengono citati per descrivere la maleducazione delle nuove generazioni native digitali e passo in rassegna i numerosi dati che dicono di quanto poco siamo capaci di fare rispettare le regole.
Penso a noi adulti privi di autorevolezza e di rigore e alle scuole in mano alle bande dei bulli, rifletto su come non responsabilizziamo i nostri figli e su quanto sia difficile competere con la tecnologia, della quale loro sono ostaggi.
Poi, mi arrendo e ammetto che, forse, è sempre stato così.
O, perlomeno, da quando, cinquant’anni fa, è finita l’epoca della coercizione, delle punizioni, dell’ordine costituito e dell’autorità paterna, con la quale non si dialogava nemmeno.
Anche perché c’era poco da dire.
Allora, forse, ciò che mi devo chiedere non è come mai facciamo così tanta fatica a convivere, piccoli grandi insieme, o come mai vige il caos o perché la comunità adulta educante ha perso il controllo e litiga sulla pelle dei pochi figli rimasti.
Mi devo chiedere, invece, come si può fare per essere liberi davvero.
Quali nuove regole, quali nuove convenzioni ci possono permettere di riscrivere una trama di rispetto orizzontale (tra tante culture messe insieme) e verticale (tra le diverse, e molte, età contemporanee).
Chi dice cosa, chi ascolta chi, quali sono le cose irrinunciabili e quali quelle che possiamo mettere in discussione.
Il codice è saltato, tanto tempo fa, e non si può fare altro che tentare di costruirne un altro.
Con qualche riferimento: il piano geografico non può più essere solo locale, il piano sociale non può più essere solo specifico, quello psicologico non può più prescindere dalla tecnologia e quello etico/morale dall’insieme di mille popoli.
L’impresa sembra impossibile, a meno che non ci si appelli a ciò che, nei secoli, ha continuato a resistere, anche ai nostri attacchi, e che ci fa, oggi, come sempre, paradossalmente più paura.

A mezzogiorno, quando l’esercito dei futuri adulti è finalmente tornato a casa per pranzo, il sole alto che scalda le case si staglia fermo e sicuro sopra le nostre teste a dire che è soprattutto per NATURA che noi viviamo e che da questa si deve ripartire.

È a lei che dobbiamo domandare il permesso, lasciandole il passo, chiedendo per favore, senza spingere più.

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La coscienza ha un peso.
Chi ce l’ha, di solito costruita un po’ per educazione, un po’ per natura e un po’ per caso come tutte le cose, la sente, eccome.
Avere coscienza significa sentire il retro delle cose, comprendere cosa c’è dietro e, soprattutto, cosa c’entri tu, cosa puoi fare, cosa hai fatto, in che cosa, invece, ti sei tirato indietro.
Una cosa succede e tu, se hai coscienza, ne vedi le ragioni e, soprattutto, le conseguenze.
Ci ragioni, ti interroghi, ci pensi.

Ad avere coscienza impari da piccolo, ma anche da grande.
Da piccolo, soprattutto per imitazione. Se sei circondato da persone che hanno coscienza, impari.
Anche da grande puoi imparare, soprattutto se accetti un aiuto.
Un aiuto a sciogliere lo strato che, sulla coscienza, hai costruito via via con gli anni, soffocandola e seppellendola sotto montagne di azioni automatiche e di pensieri fissi che diventano prigioni.
Azioni che ci difendono dalle cose che ci capitano, dispositivi che ci impediscono di soccombere, ma che ci rendono ciechi e sordi.
Non vediamo più cosa ci succede davvero e non sentiamo più quello che abbiamo dentro.
La coscienza, appunto.
Allora, programmiamo delle strategie con le quali proteggiamo, o così ci sembra, ciò che siamo e ciò che abbiamo.
Appena veniamo messi in discussione, tac, sfoderiamo il meccanismo.
Incolpiamo, aggrediamo, evitiamo, ci chiudiamo, alziamo la voce, mettiamo a tacere e così via.
Poi, ci sembra di stare meglio, ma la fiammella, che arde in tutti, ci manda segnali di disagio, che possiamo ascoltare o no.
Invertire la rotta, rompere il meccanismo è difficilissimo. Ascoltare quei segnali è difficilissimo.
E’ difficilissimo perché corrisponde innanzitutto a perdere l’equilibrio.
Significa barcollare, disorientarsi.
Significa stare male.
Ma è proprio in quel momento lì che la coscienza parla.
Quando non capisci più niente, cosa fare, cosa essere, cosa dire, è quello il segnale del fatto che sei nella coscienza e non più nell’incoscienza.
Dovremmo spiegarlo ai bambini.
Attento: quando ti sentirai confuso, sarai pronto per cercare la strada.
Quando ti sembrerà di avere fallito, avrai la possibilità di riprovarci.
Quando crederai di non essere nessuno, incomincerai ad esprimere chi sei.
Le donne hanno coscienza più degli uomini.
E’ un bagaglio che ereditiamo dalle nostre antenate prima ancora di venire al mondo.
E crescere con l’attribuzione della responsabilità delle cose insegna a sentire responsabilità.
E’ un peso che sappiamo portare, di cui ci carichiamo a prescindere.
Allora, non possiamo essere proprio noi a insegnarla questa benedetta coscienza?
E ad insegnarla anche ai maschi?
Proteggendo fino ad un certo punto i nostri figli (non fino ai venticinque anni per intenderci), ma, poi, mettendo di fronte alle cose.
Essere presenti, rispondere in prima persona, assumersi gli oneri.

Tutto sommato, alla fine, dovremmo riabilitare il senso di colpa.
L’abbiamo ingiustamente condannato, ma ora che se ne sono perse le tracce, decisamente ci manca.

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Un cuore in due

E brava Francesca Michielin.
Vent’anni e una canzone bella dietro l’altra.
Canzoni da ventenni, canzoni giovani, forse un po’ acerbe, ma belle.
Un cuore in due, cantata con voce volutamente graffiata e ricercatamente english, è semplice e bella.
“Avere un cuore in due non è facile, ognuno vuole più della metà per sé”, canta Francesca, ed è vero.
E, “al massimo”, poi, “diventa un’abitudine”…
La Michielin azzarda il fatto di sapere già come può andare a finire e questo significa, essendo i suoi pezzi fortemente autobiografici, che l’ha provato, che c’è già passata, in mezzo alla fine non tanto di un amore, ma dell’idea di quell’amore. E ne è uscita libera.
In un’intervista ha dichiarato che “vuole trovare in sé la fonte di felicità” ed è questo che la distingue da molti altri suoi coetanei, concentrati sulla ricerca altrove o non concentrati.
Ma, così, si può essere se si crea, se esiste un livello di soddisfazione/realizzazione personale forte, basato sulla possibilità di dire qualcosa di nuovo e di riuscire a dirlo bene.
Per questo, credo che, fin da molto, molto piccoli, occorrerebbe essere educati, formati, a creare, appunto.
Inventare storie, inventare poesie, musiche, canzoni.
Non importano i risultati, non si tratta di arte, si tratta di vita.
Si tratta di imparare che si può dire, fare (e anche baciare) nella forma che si ritiene più propria, più possibile. Che si può e che è bello.
Occorre incoraggiare i bambini a non aver paura di tirare fuori quello che sono dentro, anche in zone che non si conoscono fino a quando non escono.
Ma ciò che conta non è solo stimolare, e in modo strutturato, come fa bene ai piccoli, attraverso giochi, attività, esperienze concrete, ciò che conta è gratificare dopo.
Ciò che conta è fare sentire forti, bravi e capaci.
Tutto si può aggiustare, tutto si può migliorare, ma se la fiducia in ciò che emerge dai flutti della propria mente e anima non cresce insieme a noi, sarà difficile aprirsi dopo.

Brava Michielin, ma bravi anche i tuoi.
Sono sicura che credono in te.

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Tema di maturità

Me lo ricordo bene il tema della mia maturità.
Si riferiva all’importanza dei “mezzi di comunicazione”.
Il titolo preciso non lo ricordo, ma so che l’ho scelto perché mi dava la possibilità di fare un lavoro ampio, libero.
Chi l’ha affrontato, più o meno, credo si ricordi del proprio esame.
Ognuno sa, a grandi linee, cosa è successo, ma, di sicuro, rammenta i particolari.
Per me è stata l’emozione enorme del giorno precedente e della mattina stessa e di come, prima di entrare, ho dovuto cercare una strategia per calmarmi perché altrimenti non ce l’avrei fatta.
Ricordo che ho guardato fuori dalla finestra della scuola e, dalla mia intensa e drammatica situazione, guardando il cielo, mi sono alzata su, su, fino a che  la mia postazione non è diventata piccola e stupida.
Sì, ricordo che ho visualizzato il mio andare in alto e, da lì, ho potuto vedere quanto era minuscolo ciò che mi stava succedendo.
Così mi sono rilassata e sono entrata.
Del fatto che i titoli fossero sconosciuti e a sorpresa ero contenta, oggi so che il fattore novità è necessario per potere creare. Si sapessero le tracce prima, non si produrrebbe nulla.
L’adrenalina del momento, fatta di desiderio di riuscire, emozione e un tempo definito nel quale stare, unita ai titoli improvvisi e nuovi scatena.
Anche se nel primo momento può sembrare ci sia il nulla, poi la scintilla scocca.
Stamattina, tra le diverse tracce, avrei scelto quella riguardante il voto alle donne di settant’anni fa.
Non per celebrarlo, oggi è una cosa naturale e questo bisogno non l’avrei sentito.
L’avrei scelto, anche questa volta, perché mi avrebbe permesso di ampliare, di sviluppare liberamente un pensiero, a partire dal voto alle donne.
Un pensiero su come eravamo, su come siamo, su come potremmo essere domani.
Un viaggio, con gli occhi di oggi, per comprendere cosa reggeva le regole di quel tempo e cosa è riuscito a farle cambiare.
Chi ha promosso quel cambiamento?
Chi l’ha goduto?
A cosa serve, ma, soprattutto, cosa significa?

Mi piacerebbe molto leggere gli scritti che, stamattina, sono usciti dalle penne (le penne!) degli studenti gobbi sui fogli (i fogli!).
So che qualcuno ha sofferto della fatica fisica di scrivere, di fare quella cosa che una volta si chiamava scrivere, con l’inchiostro, pur rinchiuso in una penna a sfera.
So di qualcuno che, dopo tre ore, non ce la faceva più, con i muscoli indolenziti come quando cammini per ore in montagna e, anche se ogni giorno quella cosa lì la fai, non la fai per così tanto tempo e senza fermarti.
Sì, lavorare ad un tema, scrivendo per sei ore, è un po’ come scalare una montagna che non hai mai affrontato, con lo zaino in spalla, sotto il sole.
Si vede la vetta, ma per raggiungerla devi sudare, passo dopo passo e non puoi smettere fino a quando non sarai arrivato.
Sai che verrai giudicato, ma quello che puoi fare è solo cercare di mettercela tutta per, poi, accettare quello che verrà.
Hai la mente che spazia in mille cose che potrebbero uscire, in mille possibilità, ma è evidente che occorre sceglierne alcune, solo alcune per, poi, cercare di organizzarle.
Devi rileggere, ripensare, rifare, rivedere.
Ci sono momenti in cui ti sembra che tutto sia sbagliato, altri in cui sai di potere farcela.
Sei libero, ma devi stare nel sentiero che ti è stato indicato.
Infine, sai di avere tanto tempo, ma, minuto dopo minuto, questo si accorcia ed è chiaro che ci sarà una scadenza che non sceglierai tu.

Ragazzi, come potrebbe chiamarsi tutto ciò, se non maturità?

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Imerovigli

Due fidanzati giovani e carichi di energia, in moto a Santorini.
Lui guida elegante, lei molto coinvolta.
Parcheggiano e camminano per le vie tortuose e luminose di Imerovigli.
Lui abbronzato e fiero, lei devastata da un herpes che non dà tregua.
Sotto il vestito leggero, messo in valigia con amore, si sparge una miriade di puntini rossi in disegni che partono dal collo e scendono verso le magre gambe rosse.
Lui parla poco, è impegnato nella visita.
Lei, ogni tanto gli chiede un bacio, è evidente che non è concentrata sul borgo.
Non stanno insieme da molto, lo si capisce dal fatto che, nonostante l’herpes, lei non fa il minimo accenno alla sofferenza, evidente a me, invece, che, a differenza del ragazzo, la guardo.
Verrà il tempo in cui griderà vendetta, gli confesserà il disagio e il ricordo si trasformerà: non più baci e tramonto e meravigliosa Grecia, ma vaffanculo tu che non te ne rendevi neanche conto.
In malora te e le foto sotto il sole, sono stata così male.

Lui non ricorderà né le foto, né il paesino, né le vacanze.
Ma non è lui il regista di questo classico, non è lui ad aver scritto questa commedia.
Lui non si è nemmeno reso conto.
A definire la trama è la ragazza che, per amore, o così le sembra, sceglie di subire, senza sapere che, se parlasse, forse lui le coprirebbe le spalle con un telo e la porterebbe all’ombra per baciarla lievemente.

Alla fine, questo bisogna insegnare alle giovani donne, alle bambine:
se si vuole bene al sé, si merita l’amore dell’altro.

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Educarsi

Il padre di una studentessa morta nell’incidente stradale che ha coinvolto in Spagna un gruppo di giovani in Erasmus, ieri, mi ha colpito.
Intervistato, ha dichiarato che non incolpa l’autista che guidava il bus uscito di strada per il suo colpo di sonno. Ha detto che non lo incolpa e che che occorre capire perché è successo quel che è successo e comprendere, al di sopra di lui, di chi è la responsabilità.
Che uomo.
Un uomo che in uno dei massimi momenti di stress emotivo, usa la ragione.
Che passa dall’io al noi.
Che guarda la situazione nel suo complesso e non cade prigioniero del suo stesso stato.
Che non ne viene travolto.

Come può riuscire a farlo?
Non è sicuramente una capacità che esplode da un momento all’altro, improvvisamente.
È una competenza, credo, che ha radici profonde, nel passato, che nasce come frutto dell’intera vita.
E’ una competenza che è stata educata.

Come?
E’ difficile sintetizzare il processo che porta alla maturità, che sviluppa la ragionevolezza, ma ci provo.

Uno: l’esercizio della riflessione. Delle cose che accadono occorre parlare, a sé stessi e con gli altri.
Cosa è successo? Perché? Cosa ne penso? Cosa provo? Cosa pensi tu?
Due: l’esercizio dell’empatia.
Cosa prova l’altro? Cosa vedo nell’altro? Cosa penso stia pensando? Al suo posto cosa farei?
Tre: l’esercizio del pensare in termini universali.
Sapere generalizzare, sapere guardare il mondo. Parto dalla mia esperienza, ma la allargo, la metto in relazione con l’universo. E scopro che nell’universo, la mia esperienza esiste anche per altri, che il mio dolore, la mia gioia, sono eventi che colgono l’essere umano in generale, non solo me.
Raccolgo i dati che arrivano da fuori, li ascolto, li osservo. Guardo l’insieme, mi vedo dall’alto.
Quattro: l’esercizio dell’ascolto, appunto.
Sto zitto, mi metto in attenzione. Mi interesso dell’altro e di ciò che è intorno a me. Lo registro, lo faccio mio. Mi importa cosa mi si sta dicendo, non solo cosa penso io.
Cinque: l’esercizio dell’esame di coscienza (antico esercizio).
Cosa ho fatto? Cosa posso fare? Cosa potevo fare? Cosa è successo dopo le cose che ho fatto? Che responsabilità ho?
Potrei continuare.
Si tratta di azioni che, ad un bambino, ad un ragazzo, devono essere proposte, non arrivano da sole. Sono azioni da condividere, da proporre, da mostrare con l’esempio.
Allora, crescere può significare affrontare una per una le tante cose difficili che si parano davanti e non scansarle.
Può significare mettersi alla prova e superarla, con forza fisica e mentale, da esercitare, appunto.

Il papà che ho ascoltato in tivù è passato inosservato rispetto alle tante reazioni eclatanti che che vengono mostrate, ma invito ad andare a riascoltarlo.
Rincuora, consola, fa sperare nella possibilità di evolvere e di non soccombere anche di fronte alle tragedie, ma, in generale, in mezzo alle mille facce di una umanità perduta. In fondo, credere nella forza dell’educazione dà la speranza non solo di resistere alle difficoltà, ma anche di scoprire o ritrovare la rotta nella mappa della vita.
In un viaggio che non si può programmare, ma al quale possiamo dare un significato scelto da noi.

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